Reddito, stretta sugli extracomunitari Limitati gli effetti delle dimissioni
È in arrivo una “stretta” per gli stranieri provenienti da Paesi extra europei che richiederanno il reddito di cittadinanza: dovranno dimostrare la composizione del nucleo familiare, con una certificazione rilasciata dalla competente autorità dello Stato estero, tradotta e legalizzata dal consolato italiano.
Lo prevede un emendamento della Lega, approvato dalla commissione Lavoro del Senato, da ieri impegnata in votazioni ad oltranza del Dl 4/2019 che già prevede come requisito per ottenere il Rdc la residenza in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo (vincolo che si applica a tutti, italiani compresi). Secondo l’Istat, l’87,6% (2 milioni 370 mila persone) dei percettori del Rdc saranno italiani, mentre gli stranieri si stima saranno il 12,3%, ovvero 330mila. Di questi, 228 mila persone sono extra-comunitarie (8,4% dei beneficiari): per loro diventa molto difficile ottenere il Rdc. Si tratta di 95mila nuclei familiari di provenienza extra Ue. La disposizione, tuttavia, non si applicherà ai cittadini con lo status di rifugiato politico, o nei cui Paesi di appartenenza è «oggettivamente impossibile acquisire le certificazioni», o «qualora convenzioni internazionali dispongano diversamente». L’emendamento prevede che entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del Dl, con un decreto ministro del Lavoro-Affari esteri, verrà definito l’elenco dei Paesi dove non è possibile acquisire la documentazione per la compilazione della dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), ai fini Isee.
Sempre ieri è stato approvato anche un emendamento M5S all’articolo 2 del Dl che limita al solo componente del nucleo familiare, disoccupato a seguito di dimissioni volontarie, la perdita del diritto a fruire del reddito di cittadinanza nei dodici mesi successivi alle dimissioni (fatte salve le dimissioni per giusta causa). La formulazione iniziale prevedeva, invece, l’esclusione per l’intero nucleo familiare. Questi due correttivi sono stati votati in Commissione all’indomani dell’accordo di maggioranza raggiunto nel vertice di martedì sera alla presenza del premier Giuseppe Conte, che ha portato al ritiro di 39 emendamenti oggetto di divisioni tra Lega e M5S, o privi di coperture, come quelli a favore delle famiglie con disabili.
Il ritiro in blocco ha provocato la protesta delle opposizioni, secondo cui si è compressa la discussione in Commissione; la maggioranza in serata ha annunciato la trasformazione degli emendamenti in ordini del giorno. «La maggioranza ha bocciato tutti i nostri emendamenti che intervenivano sul requisito di 10 anni di residenza e per sostenere famiglie con disabili – ha commentato Annamaria Parente (Pd) – . È una misura ingiusta che produrrà nuove disuguaglianze».
Peraltro, il vincolo dei 10 anni di residenza secondo diversi costituzionalisti è a rischio di ricorsi alla Consulta. Il dossier del Servizio studi del Senato evidenzia come la giurisprudenza della Corte abbia ritenuto «irragionevoli alcune disposizioni che richiedono come requisito necessario una permanenza nel territorio di molto superiore a quella necessaria all’ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo (5 anni)». Da ultimo, con la sentenza 106/2018 la Consulta è intervenuta sulla legge regionale della Liguria che richiedeva una residenza di 10 anni per il migrante per l’assegnazione di un alloggio popolare rilevando una «forma dissimulata» di discriminazione nei confronti degli extracomunitari.
Il vincolo dei 10 anni di residenza, di cui gli ultimi 2 in via continuativa, penalizza anche le 50mila persone senza tetto: per loro «è pressoché irraggiungibile» ha denunciato la Federazione italiana organismi delle persone senza dimora, che in audizione al Senato ha spiegato che solo 209 comuni sono organizzati per riconoscere la residenza fittizia alle persone senza dimora (Milano ha aperto 4 nuovi sportelli).