Contenzioso

La «giusta causa» nel pubblico impiego

di Alberto De Luca e Marilita Piromalli

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 10 febbraio 2015, n. 2552, ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato da un'azienda di trasporti ad un proprio dipendente, autore di gravi violazioni degli obblighi di vigilanza e immediata denuncia su di lui gravanti nel ruolo di responsabile dell'ufficio commerciale. Il dipendente aveva omesso di denunciare alla direzione un collega che si era indebitamente appropriato del denaro dei parcometri gestiti dall'azienda ed invitato al silenzio un altro dipendente che aveva assistito all'illecito.


Motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato da un dipendente avverso la decisione della Corte di Appello di Firenze che, in riforma alla sentenza del giudice di primo grado, aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato allo stesso per violazione degli obblighi di vigilanza ed omessa denuncia - su di lui incombenti in qualità di responsabile commerciale - in relazione agli ammanchi che si erano verificati nella raccolta del denaro dai parcometri e, in particolare, in relazione ad un episodio di furto da parte di un addetto alla manutenzione, a cui aveva personalmente assistito. Tale condotta risultava aggravata dal fatto che il lavoratore poi licenziato avesse chiesto ad altro dipendente di tacere in merito alla disonestà del collega – disonestà costata all'azienda un'ingente quantità di denaro - e dal tentativo dello stesso di attribuire gli ammanchi di denaro a presunti guasti meccanici. La “estrema leggerezza” del responsabile commerciale, che aveva di fatto impedito alla direzione di conoscere i fatti e adottare i dovuti provvedimenti nei confronti dell'addetto alla manutenzione, secondo la corte territoriale, era stata correttamente ricondotta alla previsione di cui all'art. 45 R.D. n. 148/1931, che prevede la destituzione del personale dei trasporti pubblici che consapevolmente si appropri o contribuisca a che altri si approprino di beni dell'azienda, ciò integrando giusta causa di licenziamento. Il dipendente ha presentato ricorso in Cassazione denunciando, in tale sede, la violazione del citato articolo 45 ritenendo che, in assenza dell'intenzionalità della sua condotta, il licenziamento non potesse essere ascrivibile a tale previsione. Tale doglianza è stata respinta dalla Suprema Corte la quale, sul tema, confermando in linea di principio la corretta applicazione della norma citata e rilevando comunque la non attuabilità di una rivisitazione del quadro probatorio in mancanza di una illogica motivazione della sentenza impugnata. La Cassazione ha rigettato altresì le censure sollevate dal ricorrente in merito alla denunciata insussistenza della giusta causa del licenziamento, precisando, in ogni caso, la propria estraneità rispetto al giudizio di proporzionalità della sanzione. Al riguardo, è stato specificato che la “valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e della adeguatezza della sanzione” rientrano tra “le questioni di merito che, ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità”.

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