Contenzioso

Il mancato versamento di ritenute previdenziali non si giustifica con l’insolvenza

di Silvano Imbriaci

Non può invocare lo stato di illiquidità e di insolvenza l'amministratore della società che ha omesso di versare le ritenute previdenziali sulle retribuzioni erogate ai dipendenti. L'imprenditore ha infatti l'obbligo di provvedere alla gestione delle proprie risorse in modo tale da far fronte a tale obbligo, che ha natura indefettibile, cosicché non può ipotizzarsi l'impossibilità del versamento per fatti sopravvenuti come, appunto, una situazione di illiquidità del soggetto obbligato al versamento.

La Cassazione penale (sez. III, 18 marzo 2015, n. 1153) ribadisce dunque il principio della sostanziale irrilevanza, ai fini della responsabilità penale per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori, dello stato di illiquidità o di insolvenza del datore di lavoro, obbligato al pagamento.

Il reato contestato nel caso di specie è quello previsto dall'art. 2, comma 1 bis, del d.l. n. 463/1983 (conv. in l. n. 638/1983), ossia l'omesso versamento delle ritenute previdenziali, punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino ad € 1.032,91. Il datore di lavoro non è punibile se provvede al versamento entro 3 mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.

Si tratta della fattispecie di reato sopravvissuta alla depenalizzazione che nel corso del tempo ha interessato praticamente tutte le fattispecie contigue e conseguenti ad inadempimenti contributivi da parte del datore di lavoro (peraltro, anche questa residua condotta omissiva sarà probabilmente destinata a perdere rilevanza penale). Per quanto riguarda l'elemento soggettivo, il reato di cui all'art. 2 cit. non richiede il dolo specifico, esaurendosi con la coscienza e volontà dell'omissione o della tardività del versamento delle ritenute. Costituisce inoltre reato proprio: secondo un orientamento giurisprudenziale (Cass. III pen. n. 35259/2003) risponde del reato anche l'amministratore di una società di grandi dimensioni, in mancanza di una valida delega di funzioni ad altro soggetto e pur in presenza di un apposito ufficio che curi la redazione dei DM e delle rispettive ritenute.

Quanto invece alla struttura del reato, costituisce presupposto della fattispecie criminosa l'avvenuto pagamento della retribuzione (cfr. Cass. Pen., Sezioni Unite, n. 27641/2003). Sulla base di queste premesse la Cassazione, nella sentenza n.11353/2015, si occupa di verificare se possa parlarsi di condotta penalmente rilevante nelle ipotesi in cui l'omesso versamento della quota a carico sia imputabile a situazioni di dissesto patrimoniale e di crisi di liquidità, fino anche ad un vero e proprio stato di insolvenza o fallimentare.

A dire il vero sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte, confermata da questa ultima pronuncia, non pare aver avuto mai grosse incertezze, ravvisando la sussistenza del reato anche in queste ipotesi, in quanto grava sull'imprenditore l'onere di ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le retribuzioni ai dipendenti in modo da poter adempiere all'obbligo di versamento delle ritenute (fin da Cass. III pen., n. 11962/1999; vedi anche Cass. III pen. n. 47340/2007; n. 38269/2007; n. 33945/2001).

I principi alla base di detto orientamento, tuttavia, sono stati messi in discussione da una serie di sentenze di merito (ad es. Trib. Milano G.I.P., 7 gennaio 2013; Trib. Novara G.I.P., 20 marzo 2013), riferite, in parte, alla diversa ma parallela fattispecie delittuosa fiscale di cui all'art. 10 bis del d.lgs. n. 74/2000 (omesso versamento di ritenute certificate da parte del sostituto d'imposta) nonché al delitto di omesso versamento IVA (art. 10 ter d.lgs. n. 74/2000) e basate, in sintesi, sull'applicazione della scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.), o sul ricorso al concetto di forza maggiore (art. 45 c.p.).

La Cassazione rimane comunque di contrario avviso. Quella di non versare le ritenute costituisce una scelta consapevole e tale opzione non perde la sua illiceità per il solo fatto dello stato di dissesto o più semplicemente dell'insistere di una fase di criticità. La scelta del datore di lavoro di non versare le ritenute o comunque di destinare le risorse rimaste ad altri adempimenti (es il pagamento delle retribuzioni) non è infatti giustificabile con il ricorso alla mancanza di liquidità. Quando il datore agisce in qualità di sostituto, ossia anche per il pagamento della quota a carico del lavoratore, agisce comunque in adempimento di un obbligo di legge, posto sullo stesso piano del pagamento, ad esempio, delle retribuzioni. Ed allora non è possibile invocare lo stato di illiquidità come scriminante, dal momento che all'atto del pagamento delle retribuzioni l'imprenditore deve tener conto anche della quota maggiore di ritenuta, e in questo senso deve leggersi il richiamo ad un obbligo di ripartizione delle risorse esistenti.

Il disvalore della condotta, anche da un punto di vista soggettivo, sta anche e soprattutto nel non aver volontariamente provveduto all'accantonamento delle somme dovute all'Istituto, circostanza che invece avrebbe reso irrilevante l'impossibilità di un versamento per fatti sopravvenuti. Il fatto che l'omissione sia per così dire "imposta" dalla crisi di liquidità in cui versa il soggetto obbligato, è dunque elemento irrilevante sul piano penale. Il datore di lavoro, non avendo deciso di accantonare le somme dovute all'Istituto in vista delle scadenze, si è posto volontariamente nella condizione di legare il proprio adempimento (nel rispetto del termine previsto) ad una circostanza determinante quale lo stato di liquidità o di illiquidità, o, più in generale, di crisi o di dissesto, indipendentemente dalla sua prevedibilità.

Le uniche ipotesi ammesse di esclusione del dolo generico sono rappresentate, secondo la Cassazione, dal modesto importo delle somme non versate o dalla discontinuità ed episodicità delle inadempienze (cfr. Cass. Sez. III Pen. n. 3663/2014).

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