Contenzioso

Epatite C contratta da infermiera, la Cassazione nega la malattia professionale

di Angelina Turco

L'epatite C è una malattia ad eziologia plurifattoriale e l'onere della prova del nesso causale con l'attività lavorativa è a carico del lavoratore. È quanto ribadito dalla Corte di cassazione con ordinanza 12 aprile 2019, n. 10331.

La vicenda a monte della decisione è la domanda presentata dall'erede di un'infermiera professionale per l'accertamento dell'occasione di lavoro per gli infortuni occorsi in occasione di punture da siringhe infette e per il riconoscimento della rendita o dell'indennizzo in somma capitale per la menomazione all'integrità psicofisica subita nello svolgimento dell'attività lavorativa. La domanda era stata rigettata dalla Corte d’appello che non aveva ritenuto fornita dalla lavoratrice la prova del nesso causale fra l'evento infortunistico (le punture da siringhe) e la lesione dell'integrità fisica (l'epatite cronica anti Hcv positiva), non essendovi prova che l'ago che aveva causato le due punture fosse infetto e non essendovi all'epoca dei fatti reattivi specifici per la ricerca dell'epatite C; per i giudici di merito non esisteva quindi nesso causale, neppure in termini di probabilità, tra l'infortunio e la malattia contratta dall'infermiera.

La Corte di cassazione è stata chiamata a decidere sul ricorso proposto dall'erede dell'infermiera contro tale sentenza.

I giudici di legittimità, nel rigettare il ricorso, confermano il percorso logico seguito dalla corte territoriale e ribadiscono il principio «che la malattia professionale in questione (epatite cronica anti Hcv positiva) è ad eziologia plurifattoriale, sicché la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità»(Cass. n. 12364/2014).

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