Contenzioso

Licenziamento del dirigente: nasce l’obbligo di “repechage” retributivo?

di Aldo Calza

Come è noto, fatti salvi i casi di discriminatorietà o nullità del recesso nelle ipotesi previste all'articolo 18, comma 1, dello Statuto dei lavoratori, per i dirigenti vige il principio della libera recedibilità, senza vincoli particolari derivanti dalla legge.
Sono solo i contratti collettivi, ove applicati, che intervengono prevedendo più o meno lauti indennizzi in favore dei dirigenti qualora il licenziamento non rispetti il requisito della “giustificatezza”, requisito assai meno vincolante rispetto a quello della giusta causa o del giustificato motivo applicabile invece alle altre categorie di dipendenti.
La giustificatezza, infatti, sussiste in presenza di qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l'arbitrarietà, la pretestuosità o la contrarietà a buona fede e correttezza.
Per quanto riguarda il licenziamento del dirigente per motivi oggettivi, in particolare, la prova della giustificatezza si limita, in buona sostanza, alla dimostrazione in ordine all'avvenuta soppressione della posizione di lavoro occupata dal dirigente all'atto del recesso.
Ciò senza che l’azienda sia tenuta a dimostrare l’ impossibilità di continuazione del rapporto o l'eccessiva onerosità dello stesso in relazione allo stato di crisi in cui versa l'azienda, come scrive la Corte di cassazione nella sentenza qui commentata (sentenza n. 3121 del 17 febbraio 2015).
E soprattutto senza che l’azienda debba cimentarsi nell’assai arduo esercizio processuale di dimostrare la cosiddetta impossibilità di adempiere all'obbligo di repechage, ossia all'obbligo di ricollocare il dipendente in mansioni equivalenti (o addirittura, secondo una giurisprudenza minoritaria ma ancora attuale, in mansioni inferiori), da sempre ritenuto applicabile invece nei licenziamenti che riguardano operai, impiegati e quadri.
I suddetti principi sono stati confermati anche nella sentenza della Cassazione qui commentata, con un’aggiunta tuttavia che configura un inatteso, quanto sorprendente, colpo di scena nella materia del licenziamento dei dirigenti.
Nel caso in esame, infatti, la Corte ha individuato un profilo di ingiustificatezza del licenziamento nel fatto che l'azienda, pur avendo indicato tra i motivi del recesso quello della necessità di riduzione dei costi, non abbia dimostrato di aver proposto al dirigente, prima di licenziarlo, una riduzione del suo trattamento retributivo complessivo.
Si tratta, a tutti gli effetti, di una traduzione in termini economici dell’obbligo di repechage, sicuramente più stringente ma in fondo non così diverso, richiesto ai fini della legittimità del licenziamento dei lavoratori non dirigenti.
È vero che nella sentenza in esame si toccano altri profili, per così dire più “tradizionali”, che concorrono alla declaratoria di ingiustificatezza del licenziamento, con particolare riferimento a un insieme di circostanze che rendono piuttosto evidente la arbitrarietà del licenziamento, in quanto, secondo la Corte, «la libertà di iniziativa economica non è in grado, ex se, di offrire copertura a licenziamenti immotivati o pretestuosi».
Si tratta, in particolare, del fatto che il dirigente, già prima del suo licenziamento, aveva subito un drastico svilimento del suo ruolo in azienda, il che secondo la Corte avrebbe avvalorato la tesi sostenuta dal dirigente secondo cui il licenziamento era finalizzato a soddisfare l’esigenza del presidente della società di «estromettere il lavoratore dal vertice della struttura e di sostituirlo con un uomo di sua fiducia».
Ma, si ripete, ciò che più colpisce nella sentenza in commento è il valore attribuito all’assenza di una proposta di «decurtazione del compenso per il futuro», che suona appunto come un tentativo, invero non condivisibile, di introdurre nel processo di valutazione della giustificatezza del licenziamento del dirigente un obbligo di … «repechage retributivo» che non trova riscontro in alcuna previsione di legge o di contratto collettivo.
Un obbligo che, se questo principio dovesse prendere piede, introdurrebbe un limite alla libera recedibilità nell'ambito dei rapporti di lavoro dirigenziali drastico e irragionevole nell’opinione di chi scrive.

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