Previdenza

Quota 100: per le piccole imprese un miliardo di Tfr in più quest’anno

di Davide Colombo e Marco Rogari

Alle imprese “quota 100” potrebbe costare quest’anno un miliardo in più per le liquidazioni del Tfr. Si tratta di un effetto finanziario dei nuovi pensionamenti finora non considerato. E la stima del miliardo, vale dirlo subito, è molto prudenziale, visto che si riferisce alla liquidazione del Tfr maturato solo negli ultimi undici anni.

La questione, nella Relazione tecnica del decreto di gennaio, è trattata solo indirettamente. Partiamo allora da quella piccola traccia per capirne di più. Secondo la Rt dei 102mila lavoratori dipendenti del settore privato che quest’anno potrebbero pensionarsi con “quota 100” o con l’anticipo a requisiti non più adeguati alla speranza di vita, 36mila sono a contratto in aziende con più di 50 addetti. La loro uscita determinerebbe nel 2019 pagamenti per 585 milioni di Tfr (al lordo del fisco) da parte del Fondo di Tesoreria Inps, dove dal 2007 viene versato il Tfr maturando per chi ha deciso di non dirottarlo su un fondo pensione complementare. Gli altri 66mila lavoratori sono invece alle dipendenze di aziende minori. Al netto di coloro che hanno scelto di girare il Tfr maturando a una forma di previdenza complementare (non più del 15% stando alle statistiche Covip) e considerando un Tfr medio uguale a quello dei loro colleghi delle imprese più grandi, vale a dire 18mila euro nel 2019, il risultato è un monte liquidazioni attorno al miliardo. Per le aziende si tratta di un onere aggiuntivo rispetto al flusso di liquidazioni ipotizzabile senza la controriforma governativa.

Quanto peseranno sui bilanci queste risorse da reperire? Secondo dati Covip nel 2017 (ultimo anno registrato) su 25,6 miliardi di Tfr generato dal sistema produttivo, 14 miliardi sono stati accantonati in aziende (come meno di 50 addetti), 6 miliardi sono stati girati al Fondo di Tesoreria Inps e più o meno altrettanti ai fondi pensione. La ripartizione si ripete senza variazioni dal 2007, anno del varo dell’ultima riforma della previdenza complementare, accompagnata da un’adesione con silenzio/assenso.

Il miliardo in più da liquidare nei prossimi mesi è una sottostima, come detto. Perché non tiene conto anche del Tfr maturato prima del 2007 e non riscattato in anticipo, dai lavoratori quotisti in uscita dalla aziende con più di 50 addetti e dalle aziende minori. Quei versamenti passati hanno generato un stock finanziario, finora non quantificato da fonti ufficiali, che dovrà essere ora liquidato.

Il datore di lavoro pubblico si è cautelato dagli effetti finanziari di “quota 100”: per il pagamento del Tfs/Tfr dei dipendenti in uscita sono previsti posticipi e, per chi volesse anticipare l’incasso fino a 30mila euro (forse 50mila dopo gli emendamenti al decreto) si lavora a un finanziamento bancario agevolato, da definire con l’Abi. Le aziende private, invece, dovranno pagare integralmente. E subito. Una circostanza che potrebbe pesare anche sulla scelta di fare assunzioni sostitutive, al di là delle pianificazioni di budget in una prospettiva di recessione economica.

La controriforma pensionistica gialloverde, in materia di Tfr, segna dunque un’altra occasione mancata. Quel salario differito, che è sopravvissuto a svariati riassetti degli ammortizzatori sociali e della contrattazione, avrebbe potuto essere riconsiderato, magari consentendo ai lavoratori di incassarlo come frazione in più della busta paga netta.

Che il Tfr non brilli tra gli oggetti d’attenzione del legislatore lo dimostra anche l’ultimo tentativo di ridefinirne la destinazione. Parliamo dell’operazione “Tfr in busta paga” lanciata dal governo Renzi con la legge di Bilancio 2015, assieme al famoso bonus da 80 euro, con l’intento di rafforzare il potere di acquisto dei lavoratori. Nei tre anni di sperimentazione che si sono chiusi nel giugno del 2018 i dipendenti privati che hanno chiesto l’erogazione mensile della liquidazione maturanda insieme con lo stipendio (la cosiddetta quota integrativa della retribuzione; Qu.I.R.) sono stati poco più di 205mila. Diverse ragioni spiegano il fallimento (molto annunciato) di quell’esperimento. La maggior parte degli osservatori disse subito, al debutto della misura nel giugno 2015, che era fiscalmente poco conveniente. Il Tfr girato in busta è stato tassato con l’aliquota Irpef ordinaria (più addizionali regionali e comunali), meno favorevole rispetto all’imposta sostitutiva sulle prestazioni di previdenza complementare o alla tassazione separata sul Tfr pagato dall’azienda a fine contratto.

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