Rassegna della Cassazione
Prova dei danni derivanti da demansionamento
Esercizio del diritto di assemblea
Conversione di sanzioni disciplinari
Lettera di licenziamento disciplinare
Costituzione del rapporto di lavoro per centralinista non vedente
Prova dei danni derivanti da demansionamento
Cass. Sez. Lav. 26 gennaio 2015, n. 1327
Pres. Roselli; Rel. Buffa; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. T.I S.p.a; Contr. G.D.P.
Lavoro subordinato - Demansionamento - Risarcimento del danno - Valutazione e liquidazione - Onere di specifica allegazione - Prova della loro sussistenza - Onere incombente al lavoratore - Necessità
In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.
Nota
Con sentenza del 2007, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della sentenza Tribunale di Napoli, riconoscendo il demansionamento di un lavoratore addetto al settore delle telecomunicazioni, dichiarava il diritto di quest'ultimo ad un superiore inquadramento, condannando la società datrice di lavoro alla corresponsione al lavoratore delle relative differenze retributive e al risarcimento del danno, determinato nel 50% delle differenze retributive per i soli primi tre anni di demansionamento.
In particolare, la Corte Territoriale riteneva che la disciplina di riforma del settore delle telecomunicazioni (L. n. 58 del 1992), che prevedeva il passaggio dei dipendenti da società pubblica a privata, con conservazione del trattamento economico goduto, rimettendo alla contrattazione collettiva la tutela della professionalità dei dipendenti attraverso la determinazione di tabelle di equiparazione tra le qualifiche di provenienza e quelle di destinazione, non precludeva - a differenza di quanto ritenuto dal giudice di primo grado - il controllo del giudice circa la conformità delle tabelle medesime al criterio del rispetto della professionalità acquisita, pur se non in applicazione dell'art. 2103 c.c., ma secondo criteri meno rigidi compatibili con il passaggio da un contesto lavorativo di pubblico impiego ad una organizzazione del lavoro predisposta da un gestore privato.
Nella specie, la Corte territoriale riteneva inapplicabili le tabelle in quanto le posizioni previste dalle stesse non corrispondevano alla reale professionalità della posizione di lavoro del dipendente, con compiti di coordinamento dapprima e - dopo il demansionamento - con mansioni meramente esecutive. Riconosciuto il demansionamento, la Corte territoriale condannava al risarcimento del danno, ritenendo questo solo per i primi tre anni, per aver poi ipotizzato un adattamento del lavoratore nel nuovo contesto in grado di eliminare ogni disagio.
Il datore di lavoro ricorreva per Cassazione, ritenendo che non vi fosse continuità tra il vecchio ed il nuovo rapporto, non essendo applicabili alla fattispecie né l'art. 2112 c.c. né l'art. 2013 c.c., ed essendo rimesse alla contrattazione collettiva le qualifiche del personale.
La Suprema Corte ha rigettato tale motivo, conformandosi al principio giurisprudenziale consolidato secondo il quale la L. 29 gennaio 1992, n. 58, nel riformare il settore delle telecomunicazioni con il passaggio dei servizi di telefonia dal settore pubblico a quello privato - senza che tale passaggio desse luogo all'applicazione dell'art. 2112 c.c. - ha previsto la predisposizione, sulla base di accordo con le organizzazioni sindacali, di tabelle di equiparazione in funzione della conservazione della posizione giuridica ed economica di ciascun lavoratore e senza possibilità di disporre dei diritti dei lavoratori, stabilendo il criterio secondo cui risulti assicurata la tutela della professionalità acquisita e di un trattamento economico globalmente non inferiore a quello precedentemente goduto (Cass. n. 24231 del 30/11/2010; Cass. n. 11936 del 22/05/2009). Ne consegue, a parere della Corte, che, "se dette tabelle di equiparazione non dovevano essere elaborate in termini di corrispondenza meccanica ed assoluta con le qualifiche di provenienza, ma secondo un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta presi in considerazione, è possibile - proprio in funzione di salvaguardia della professionalità dei lavoratori tutelata dalla legge n. 58/92 - la disapplicazione di tali tabelle ad opera del giudice che ne ravvisi, in via incidentale, la parziale nullità per la non corrispondenza ai criteri imposti dalla legge stessa, ferma restando la necessità che la valutazione circa la legittimità della equiparazione prevista in sede collettiva avvenga sulla base di un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta posti a raffronto" (Cass. n. 12647 del 8 luglio 2004; Cass. n. 4991 del 1 marzo 2011).
Con il secondo motivo del ricorso, la società lamentava l'assenza di prova di danno da parte del lavoratore in relazione all'intervenuto demansionamento.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato tale motivo di impugnazione, uniformandosi all'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (Cass. Sez. Un., sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006).
Si è altresì statuito che in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova, ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (Cass. n. 6797 del 19 marzo 2013; Cass. n. 19785 del 17 settembre 2010).
La Suprema Corte nell'accogliere il suddetto motivo ha quindi cassato la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, ha rigettato la domanda di risarcimento danni proposta dal lavoratore.
Esercizio del diritto di assemblea
Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2015, n. 2548
Pres. Roselli; Rel. Bronzini; P.M. Matera; Ric. E. S.C.p.A. Contr. F.C.
Lavoro subordinato - Art. 20 L. 300/1970 - Monte ore di assemblea retribuite - Riferito alla generalità dei lavoratori - Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 - Suddivisione tra le varie OO.SS. - Criteri - Prevenzione nella convocazione dell'assemblea
In tema di diritto dei lavoratori a riunirsi in assemblea durante l'orario di lavoro, il limite temporale di dieci ore annue retribuite, previsto dall'art. 20, comma 1, della legge n. 300 del 1970, deve intendersi riferito alla generalità dei lavoratori dell'unità produttiva e non ai singoli lavoratori, e nella suddivisione del monte ore tra organizzazioni e rappresentanze sindacali trova applicazione il criterio della prevenzione nelle convocazioni, dovendo escludersi che l'Accordo interconfederale 20 dicembre 1993 (che ha riservato sette ore annuali di assemblea retribuita alle RSU e le ulteriori tre ore ai sindacati stipulanti il CCNL applicato nell'unità produttiva) abbia attribuito il monte ore complessivo a ciascuna organizzazione sindacale.
Nota
Un sindacato proponeva ricorso ex art. 28, L. 300/70, dinanzi al Tribunale di Nola, lamentando un comportamento antisindacale da parte del datore di lavoro, per avere questi rifiutato la richiesta avanzata dall'organismo sindacale di convocazione di un'assemblea retribuita, rifiuto motivato con l'esaurimento delle tre ore spettanti alle OO.SS. stipulanti l'Accordo interconfederale del 20.12.1993 istitutivo delle RSU.
Il Tribunale rigettava il ricorso mentre la Corte di appello di Napoli accoglieva parzialmente l'appello proposto dall'organizzazione sindacale e dichiarava l'antisindacalità della condotta della società. Secondo la corte territoriale l'interpretazione preferibile dell'Accordo interconfederale del 20.12.1993 era nel senso di consentire a tutte le OO.SS. di chiedere un numero di ore di assemblea retribuita sino al raggiungimento del monte ore previsto.
Avverso tale decisione la società propone ricorso per cassazione, per violazione dell'art. 4, comma 5, dell'Accordo interconfederale del 20.12.1993 e violazione dell'art. 20, L. 300/1970.
La Suprema Corte, richiamando il proprio indirizzo giurisprudenziale in materia (Cass. 16596/2009; 17217/2010), accoglie il ricorso ed afferma che, in tema di diritto dei lavoratori di riunirsi in assemblea durante l'orario di lavoro, il limite delle dieci ore annue retribuite, previsto dall'art. 20, comma 1, L. 300/1970, va riferito alla generalità dei lavoratori dell'unità produttiva e non ai singoli lavoratori. Invero, il comma 1 della citata norma prevede che i lavoratori hanno diritto di riunirsi in assemblea "durante l'orario di lavoro nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione", mentre il successivo comma 2, dispone che: "le riunioni, le quali possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi, sono indette singolarmente o congiuntamente dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro". Con la conseguenza, secondo la Cassazione, che il comma 2 fornisce la chiave interpretativa del comma 1, nel senso che l'assemblea deve riguardare una collettività di lavoratori - o gruppi di essi (ad esempio un'assemblea per il settore della produzione ed un'altra per il settore commerciale) - e non il singolo e, quindi, il monte ore retribuite va riferito al gruppo di lavoratori che sono stati convocati, a prescindere dal fatto che il singolo lavoratore partecipi o meno all'assemblea in questione.
Inoltre, il comma 4 dell'art. 20, L. 300/70, prevede che ulteriori modalità per l'esercizio del diritto possono essere stabilite nei contratti di lavoro, anche aziendali. Esattamente quanto è avvenuto con l'Accordo interconfederale del 20.12.1993 che ha riservato sette ore annuali di assemblea retribuita alle rappresentanze sindacali unitarie, mentre le ulteriori tre ore sono riservate ai sindacati stipulanti il CCNL applicato nell'unità produttiva. Ne consegue che, prosegue la Cassazione, anche se l'Accordo in parola menziona le dieci ore come "spettanti a ciascun lavoratore", tale espressione significa solamente che ciascun lavoratore può partecipare alle assemblee convocate. Siffatta interpretazione, sempre a parere della Corte è la più ragionevole e non contrasta con i princìpi costituzionali che tutelano la libertà sindacale, poiché oggetto di tutela non è il diritto all'assemblea in sé, ma quello all'assemblea retribuita, e dovendosi bilanciare con i principi, anch'essi di rango costituzionale, di tutela della proprietà e del diritto di impresa. Altrimenti, come evidenziato dalla società ricorrente, potrebbe accadere che in un'unità produttiva vengano indette assemblee sindacali a ripetizione, alle quali partecipi una minima percentuale di lavoratori, ed in tal modo il monte ore non sarebbe consumato finché l'ultimo lavoratore avente diritto, non abbia esaurito le dieci ore, con grave pregiudizio per l'attività di impresa.
Ebbene, conclude la Corte, lo scopo dell'art. 4, dell'Accordo interconfederale, è proprio quello di stabilire un limite al diritto di assemblea che deve essere contemperato con altri diritti fondamentali e che il criterio della precedenza delle convocazioni è a sua volta un criterio razionale per ripartire tra le varie OO.SS. il monte ore previsto dalla norma contrattuale.
Conversione di sanzioni disciplinari
Cass. Sez. Lav. 6 febbraio 2015, n. 2330
Pres. Rel. Mammone; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. L.M.;
Sanzioni disciplinari - Potestà esclusiva del datore di lavoro - Sussistenza - Potere di conversione della sanzione in altra meno grave ad opera del giudice di merito - Esclusione
La potestà di infliggere sanzioni disciplinari è riservata dall'art. 2106 c.c. alla discrezionalità dell'imprenditore, in quanto contenuta nel più ampio potere di direzione dell'impresa. Ne consegue che il giudice, pur nel caso sia stato adito dal datore di lavoro per la conferma della sanzione disciplinare e sia stato dallo stesso esplicitamente richiestone, non può convertirla in altra meno grave.
Nota
La pronuncia de qua attiene ad un giudizio di accertamento della legittimità della sanzione disciplinare (sospensione di dieci giorni) irrogata a un dipendente per aver lo stesso tenuto una condotta offensiva nei confronti di alcun colleghe che avevano, in ragione di ciò, presentato un esposto. Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda proposta dalla società.
A seguito di gravame promosso dal lavoratore, la Corte territoriale riformava la sentenza di primo grado, affermando che la sanzione comminata doveva ritenersi sproporzionata rispetto alla condotta contestata e che, pertanto, il datore di lavoro doveva procedere ad una riduzione della stessa.
Avverso tale sentenza il datore proponeva ricorso per cassazione articolato in due motivi. Con il primo motivo, la società denunciava violazione degli artt. 2104 e 2106 c.c. (rispettivamente sull'obbligo di diligenza del lavoratore e sul potere disciplinare del datore di lavoro) nonché della norma del contratto collettivo che sanziona con la sospensione il lavoratore che sia autore di "minacce o ingiurie gravi verso altri dipendenti o di comportamenti che producano interruzione o turbativa dal servizio". Con il secondo motivo, lamentava vizio di motivazione nella parte in cui l'impugnata sentenza, pur a fronte di espressa richiesta, non ha determinato la minore sanzione da irrogare al dipendente in ragione della mancata proporzione rilevata. Il Consigliere relatore, depositata relazione ex art. 380 bis c.p.c., ha dichiarato inammissibili entrambi i motivi di ricorso e, per l'effetto, rigettato il ricorso, sulla scorta delle seguenti osservazioni.
Con riferimento al primo motivo, la Suprema Corte ha affermato che il giudizio di proporzionalità di una sanzione disciplinare, se congruamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. Nel caso di specie - ha osservato la Corte di Cassazione - la Corte di merito, con sentenza immune da vizi logici o giuridici, aveva accertato che le parole proferite dal lavoratore avevano contenuto offensivo ma non minaccioso e, pertanto, aveva ritenuto sproporzionata la sanzione.
Quanto al secondo motivo, la Corte di legittimità ha rilevato che, ancorché il giudizio sia stato promosso dal datore di lavoro per l'accertamento della legittimità di una sanzione disciplinare, il giudice di merito non può d'ufficio operare la conversione della sanzione disciplinare irrogata in una meno grave, pur se richiesta, atteso che siffatta pronuncia giudiziale priverebbe l'imprenditore della potestà esclusiva di irrogazione delle sanzioni disciplinari.
A supporto del proprio decisum la Cassazione ha richiamato l'orientamento, ormai consolidato in sede di legittimità, secondo cui il potere di infliggere sanzioni disciplinari (al pari del potere di graduazione della sanzione alla luce delle previsioni del codice disciplinare) è riservato alla discrezionalità dell'imprenditore ex art. 2106 c.c., rientrando lo stesso nel più ampio potere di direzione dell'impresa previsto dall'art. 2086 c.c., coerentemente con il principio di libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. (cfr. ex plurimis Cass. 25/05/1995, n. 5753).
Lettera di licenziamento disciplinare
Cass. Sez. Lav. 29 gennaio 2015, n. 1694
Pres. Stile; Rel. Balestrieri; Ric. S.V.; Controric. A.B. S.a.s.
Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento disciplinare - Requisiti - Richiamo alla contestazione disciplinare - Necessità - Esclusione
La lettera di licenziamento (disciplinare) non deve contenere necessariamente un richiamo alla precedente (e ravvicinata) contestazione. L'art. 7 St. Lav. stabilisce, per quanto qui interessa, solo che la sanzione (ivi compreso il licenziamento disciplinare) sia preceduta dalla contestazione; che il lavoratore ha diritto, ove lo richieda, di essere sentito a sua difesa, e che i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere adottati prima di cinque giorni dalla contestazione.
Nota
La sentenza in commento affronta la questione della necessità di richiamare nella lettera di licenziamento disciplinare - ai fini della legittimità del recesso - la lettera di contestazione.
Segnatamente, nel giudizio di prime cure, il ricorrente aveva eccepito l'invalidità del recesso disciplinare comunicatogli, lamentando, tra il resto, che l'assenza di un richiamo esplicito alla lettera di contestazione integrasse un'insanabile omissione nella comunicazione dei motivi.
Il Tribunale respingeva il ricorso, accertando la legittimità del licenziamento. La Corte d'Appello confermava la sentenza di primo grado, sostenendo che in caso di recesso ontologicamente disciplinare - qual è quello comunicato al lavoratore a seguito di una contestazione - il limitato lasso di tempo intercorso tra formulazione degli addebiti e licenziamento rendeva palese il collegamento tra gli stessi.
La Suprema Corte condivide siffatta motivazione, formulando il seguente principio di diritto: "la lettera di licenziamento (disciplinare) non deve contenere necessariamente un richiamo alla precedente (e ravvicinata) contestazione", tenuto anche conto che - soggiungono i giudici di legittimità - "l'art. 7 St. Lav. stabilisce, per quanto qui interessa, solo che la sanzione (ivi compreso il licenziamento disciplinare) sia preceduta dalla contestazione; che il lavoratore ha diritto, ove lo richieda, di essere sentito a sua difesa, e che i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere adottati prima di cinque giorni dalla contestazione. Nessuno di tali precetti risulta violato nella fattispecie".
Costituzione del rapporto di lavoro per centralinista non vedente
Cass. Sez. Lav., 2 febbraio 2015 n. 1839
Pres. Macioce; Rel. Amendola; Ric. M.D.P.I. +1; Res. R.V.
Lavoro - Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Collocamento al lavoro - Assunzione obbligatoria - Centralinisti non vedenti - Rifiuto di assunzione - Conseguenze - Obbligo di costituzione del rapporto di lavoro - Esecuzione in forma specifica - Ammissibilità - Fondamento
In caso di legittimo avviamento di centralinista non vedente, la cui assunzione sia indebitamente rifiutata dal destinatario dell'obbligo di assumerlo, il Giudice, se richiestone, deve applicare l'art. 2932 c.c., rendendo fra le parti sentenza che produca in forma specifica gli effetti del contratto non concluso, trattandosi di fattispecie possibile non esclusa dal titolo, essendo, infatti, prestabiliti dalla L. 29 marzo 1985, n. 113, in tema di disciplina del collocamento al lavoro e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti, la qualifica, le mansioni e il trattamento economico e normativo del lavoratore avviato, ivi compresa l'indennità legale di mansione, assumendo carattere residuale il risarcimento economico ( art. 1223 c.c. e segg.) destinato ad assicurare l'integrale soddisfazione del diritto del centralinista, indebitamente pretermesso dalla prestazione lavorativa per l'inadempimento del datore di lavoro.
Nota
Con sentenza del 2008 la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della decisione del primo giudice, accoglieva le domande proposte da un lavoratore, iscritto all'albo dei centralinisti telefonici non vedenti, nei confronti del Ministero dell'Istruzione, dichiarando costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato per l'espletamento, presso un istituto statale, delle mansioni di centralinista telefonico non vedente e condannando il Ministero al risarcimento dei danni commisurati alle retribuzioni non percepite dall'avente diritto dalla dichiarata costituzione del rapporto di lavoro sino alla data della pronuncia della sentenza.
La Corte Territoriale riteneva, in particolare, che, a fronte del persistente rifiuto della pubblica amministrazione di procedere all'assunzione di un centralinista telefonico non vedente, legittimamente l'Ufficio Provinciale del Lavoro e della Massima Occupazione aveva - ai sensi della L. n. 113 del 1985, art. 6, comma 5 - avviato d'ufficio al lavoro presso detto istituto scolastico l'iscritto nell'apposito albo, per cui il medesimo aveva diritto, a mente dell'art. 2932 c.c., alla costituzione del rapporto di lavoro ed al risarcimento del danno per la mancata assunzione.
Il Ministero della Pubblica Istruzione e l'istituto scolastico ricorrevano per Cassazione, lamentando, in particolare, che la Corte di Appello avesse erroneamente ritenuto esistente presso l'istituto scolastico un centralino telefonico.
La Suprema Corte ha rigettato i motivi di ricorso proposti dai ricorrenti, precisando che l'analisi del testo della L. n. 113 del 198: "anche in virtù dello speciale richiamo contenuto nella L. 12 marzo 1998, n. 68, art. 1, comma 3, sul diritto al lavoro dei disabili ("restano ferme le norme per i centralinisti telefonici non vedenti")", dimostri che "per costoro l'apparato di protezione della loro invalidità si articola e si sviluppa con modalità affatto peculiari e sui generis per assicurare in concreto piena attuazione al loro diritto al lavoro. In particolare, in questo sottosistema, interno alla disciplina generale del collocamento obbligatorio, l'intervento pubblico non adempie solo ad una funzione sanzionatoria rispetto all'attività omissiva del privato, ma si manifesta attraverso una serie d'ingerenze autoritative che non si limitano al solo controllo e alle sanzioni per omissione di denuncia o di richieste d'avviamento (art. 11), ma interferisce immediatamente e direttamente sulla struttura imprenditoriale (artt. 3 e 6), istituendo una rete di controlli, anche incrociati (v., art. 5, commi 3 e 4) e di supporti e verifiche (art. 8), che s'inseriscono a pieno titolo e sono compatibili con l'art. 41 Cost., comma 2, posto che si coniugano con l'utilità sociale, come rettamente intesa dal legislatore costituzionale, attento ai valori della libertà, anche dal bisogno, e della dignità umana dei concittadini marcati dalla sorte" (v. sent. n. 15913 del 2004).
In applicazione di quanto sopra, secondo la giurisprudenza di legittimità: "in caso di legittimo avviamento di centralinista non vedente, la cui assunzione sia indebitamente rifiutata dal destinatario dell'obbligo di assumerlo, il Giudice, se richiestone, deve applicare l'art. 2932 c.c., rendendo fra le parti sentenza che produca in forma specifica gli effetti del contratto non concluso, trattandosi di fattispecie possibile non esclusa dal titolo, essendo, infatti, prestabiliti dalla L. 29 marzo 1985, n. 113, in tema di disciplina del collocamento al lavoro e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti, la qualifica, le mansioni e il trattamento economico e normativo del lavoratore avviato, ivi compresa l'indennità legale di mansione, assumendo carattere residuale il risarcimento economico ( art. 1223 c.c. e segg.) destinato ad assicurare l'integrale soddisfazione del diritto del centralinista, indebitamente pretermesso dalla prestazione lavorativa per l'inadempimento del datore di lavoro" (in conformità v. Cass. n. 12131 del 2011).
Nel decidere il caso in esame, inoltre, la Suprema Corte ha osservato che, in ordine all'individuazione dei fatti costitutivi del diritto all'assunzione del non vedente iscritto nell'albo dei centralinisti abilitati, dalle disposizioni della L. n. 113 del 1985, emerga come esso sorga in relazione all'obbligo nascente per il datore di lavoro in seguito all'atto di avviamento d'ufficio emesso dall'U.P.L.M.O. competente, dopo che il destinatario dell'invito a provvedere si sia reso inadempiente. Non è dunque, a parere della Corte, il lavoratore non vedente che ha l'onere di provare la sussistenza, presso il destinatario dell'atto, di un centralino dalle caratteristiche delineate dalla L. n. 113 del 1985, art. 3, comma 1, con acquisizione di fonti di prova estranee alla sua immediata disponibilità, essendo invece sufficiente che egli deduca e provi l'iscrizione nell'albo professionale dei centralinisti telefonici privi della vista nonché l'atto di avviamento al lavoro.
Nel caso di specie secondo la Suprema Corte, la Corte d'Appello, aveva ritenuto - con giudizio non sindacabile in questa fase di legittimità - che fosse stata acquisita la prova dell'esistenza, presso l'istituto scolastico in controversia, di un centralino telefonico per operatore non vedente, mentre aveva considerato che le circostanze addotte dalla Pubblica Amministrazione, secondo cui il centralino poteva funzionare manualmente o attraverso sistemi di collegamento automatici, erano rimaste indimostrate, non essendo state formulate al riguardo tempestive richieste istruttorie in primo grado.