Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Applicazione ai dirigenti delle garanzie procedimentali ex art. 7 Stat. Lav.

Rifiuto del lavoratore alla reintegra manifestato in udienza e riduzione del risarcimento del danno

Licenziamenti collettivi e criteri di scelta

Infortunio in itinere e indennizzabilità

È subordinato il pensionato che svolge attività analoga a quella che eseguiva come dipendente

Applicazione ai dirigenti delle garanzie procedimentali ex art. 7 Stat. Lav.

Cass. Sez. Lav., 20 febbraio 2015, n. 3472

Pres. Macioce; Rel. Cons. D'Antonio; E. S.p.A. ric.; A.P. controric.;

Lavoro - Licenziamento - Disciplinare - Dirigente - Applicazione garanzie procedimentali ex art. 7, commi 2 e 3, Stat. lav.

Le garanzie procedimentali dettate dalla L. 20 marzo 1970, n. 300, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente - a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell'impresa - sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della sussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso.

Nota

Con sentenza del 2 febbraio 2011 la Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale con la quale il primo giudice aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato da una società a un dirigente per motivi disciplinari.

La Corte Territoriale osservava che:

– la società con una prima lettera del mese di marzo 2005, dato atto che su disposizione della procura della Repubblica di Roma vi era stata un'ispezione della Guardia di Finanza con contestuale sequestro di documenti presso l'ufficio del dirigente in merito a rapporti contrattuali tra la società datrice di lavoro e società esterne, aveva comunicato al dirigente l'esonero temporaneo con decorrenza immediata dall'obbligo di prestare la collaborazione per due mesi e l'invito a fornire informazioni sull'accaduto e a tener informata la società sullo sviluppo della situazione;

– con successiva nota del mese di maggio 2005 la società aveva prorogato l'esonero dalla prestazione; - successivamente la società aveva licenziato il dirigente, rilevando che, considerate l'elevatezza della posizione del lavoratore, le correlate responsabilità, l'estrema gravità dei sospetti suscitati dai comportamenti del dirigente e la lesione all'immagine, doveva ritenersi venuto meno il rapporto di fiducia, indipendentemente dall'esito delle indagini penali.

La Corte d'Appello, ritenuto applicabile la L. n. 300 del 1970, art. 7, affermava che la società aveva omesso di muovere delle precise contestazioni al dirigente con la prima lettera del marzo 2005 (contenente solo il richiamo alla perquisizione ed al sequestro di documenti disposti dalla Procura della Repubblica di Roma) nonchè di fissargli un termine per dare le giustificazioni. Secondo la Corte, comunque, la società non aveva provato la sussistenza di una giusta causa; aveva, infatti, fatto riferimento alle indagini svolte dalla Guardia di Finanza, peraltro neppure poste a fondamento del licenziamento, in ordine alle quali il giudice per le indagini preliminari di Roma aveva disposto l'archiviazione su richiesta dello stesso pubblico ministero per alcuni dei capi d'imputazione, ordinando invece l'imputazione coatta per altri capi e che, inoltre, i documenti consegnati dalla Guardia di Finanza e rinvenuti nel computer del dirigente consistevano in semplici appunti privi però di oggettivi riscontri circa l'effettiva percezione delle somme ivi indicate da parte del dirigente.

Secondo la Corte, infine, nessuna prova era stata fornita del danno che la società assumeva di aver subito.

Avverso tale sentenza la società ricorreva per Cassazione, denunciando la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3 e osservando che l'estensione dell'art. 7 citato anche ai dirigenti comportava l'applicazione ad essi soltanto delle prescrizioni minime contenute nella suddetta norma. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo che la sentenza impugnata fosse adeguatamente motivata, priva di difetti logici o contraddizioni, oltre che immune da errori di diritto.

Nel decidere il caso in esame la Suprema Corte si è uniformata al consolidato orientamento di legittimità secondo il quale:

"le garanzie procedimentali dettate dalla L. 20 marzo 1970, n. 300, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente - a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell'impresa - sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della sussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso" (Cass. S.U. n. 7880/2007).

Con la citata sentenza si è affermato, inoltre, che non si può distinguere la categoria dei dirigenti, esimendo il datore di lavoro dall'osservanza dell'obbligo di contestazione degli addebiti, condividendo la tesi favorevole ad estendere a tutti coloro che rivestono la qualifica di dirigenti in ragione della rilevanza dei compiti assegnati dal datore di lavoro - e quindi senza distinzione alcuna tra "top manager" ed altri (dirigenti cd. medi o minori) appartenenti alla stessa categoria - l'iter procedimentale previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7. Questo perchè - sottolineano le Sezioni unite richiamando principi affermati dalla Corte costituzionale - una generalizzata estensione delle procedure di contestazione dei fatti posti a base del recesso trova la sua "ratio" non nelle caratteristiche del rapporto di lavoro, "ma nella capacità dei suddetti fatti di incidere direttamente, al di là dell'aspetto economico, sulla stessa persona del lavoratore, ledendone talvolta, con il decoro e la dignità, anche l'immagine in modo irreversibile". Inoltre, "non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali - specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale - possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativi e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo" (Cass. S.U. n. 7880/2007, cit.).




Rifiuto del lavoratore alla reintegra manifestato in udienza e riduzione del risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 18 febbraio 2015, n. 3238

Pres. Lamorgese; Rel. Buffa; P.M. Celeste; Ric. C. C.; Contr. T. S.p.A.;

Licenziamento - Illegittimità - Manifestazione in udienza da parte del lavoratore della volontà di non riprendere servizio - Conseguenze - Reintegra nel posto di lavoro - Insussistenza - Risarcimento del danno - Limitato fino alla data dell'udienza

In tema di licenziamento individuale, qualora nel corso del libero interrogatorio, il lavoratore rifiuti l'offerta formale di reintegrazione avanzata dal datore di lavoro in via transattiva, è legittima la decisione del giudice che - accertata l'illegittimità del recesso - valuti tali dichiarazioni come sostanziale rinuncia alla tutela originariamente richiesta per il tempo successivo a detta manifestazione di volontà e condanni il datore di lavoro unicamente al risarcimento del danno fino alla data della prima udienza.

Licenziamento - Contestazione disciplinare - Fatti ragionevolmente sussistenti - Tempestività - Attesa fino al momento in cui vi sia assoluta certezza - Tardività

Il principio di immediatezza della contestazione, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che il datore di lavoro porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo l'imprenditore dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritenga di averne assoluta certezza, pena l'illegittimità del recesso, con la conseguenza che, nel caso in cui i fatti contestati abbiano rilevanza penale ed il datore di lavoro abbia presentato denuncia all'autorità inquirente, ciò non consente allo stesso di attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere alla contestazione dell'addebito.

Nota

La Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza del Tribunale di Bergamo, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno dal giorno del recesso sino alla data della prima udienza, nel corso della quale la lavoratrice aveva rifiutato la reintegrazione offertale dal datore in via transattiva.

In particolare, la corte territoriale aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per tardività della contestazione - avvenuta 14 mesi dopo la condotta addebitata - ed aveva, al contempo, valutato la volontà della lavoratrice di "non voler rientrare al lavoro" come rinuncia alla reintegra.

Avverso tale statuizione la lavoratrice propone ricorso per cassazione, denunciando violazione di legge in relazione alla mancata applicazione della tutela reale, prevista dall'art. 18 L. 300/70, in caso di licenziamento illegittimo. La Cassazione respinge il ricorso, rilevando che la corte di appello ha valutato la manifestazione di volontà resa in udienza dalla lavoratrice di non riprendere servizio - a fronte di un'offerta datoriale volta alla riammissione in servizio - unitamente al reperimento di un'altra occupazione, come sostanziale rinuncia alla richiesta originariamente manifestata con il ricorso introduttivo per il tempo successivo a tale manifestazione di volontà. E poiché si tratta di una valutazione di merito, adeguatamente motivata la stessa non è sindacabile in sede di legittimità.

La società resiste con controricorso e propone ricorso incidentale deducendo la violazione dell'art. 7 Stat. lav. nella parte in cui la corte di appello ha ritenuto tardiva la contestazione, non valutando i tempi necessari per accertare non solo la sussistenza della condotta ma anche l'ascrivibilità della stessa alla lavoratrice.

La Suprema Corte respinge anche tale motivo, evidenziando come sia stata la stessa società ad ammettere di aver presentato denuncia penale pochi giorni dopo il verificarsi della condotta, ma di aver atteso oltre un anno prima di procedere alla contestazione disciplinare senza che durante tale periodo, nel quale la lavoratrice ha continuato a prestare servizio, fossero emersi elementi diversi da quelli già noti.

La Cassazione, richiamando il proprio consolidato orientamento, afferma che, nell'ambito del licenziamento per motivi disciplinari, il principio di immediatezza della contestazione, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l'imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi appaiano ragionevolmente sussistenti, non potendo il datore di lavoro dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritenga di averne assoluta certezza, pena l'illegittimità del recesso (cfr. Cass. 20 settembre 2013, n. 21633). Con l'ulteriore conseguenza che, nel caso in cui l'illecito disciplinare abbia anche rilevanza penale, non è consentito al datore di lavoro attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile di condanna prima di procedere alla contestazione dell'addebito (nello stesso senso, Cass. 18 gennaio 2007, n. 1101).




Licenziamenti collettivi e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 2 marzo 2015, n. 4177

Pres. Stile; Rel. Balestrieri; P.M. Servello; Ric. I.S. S.p.A.; Controric. C.S.

Licenziamento collettivo - Controllo giudiziale - Verifica dell'effettività delle ragioni di riduzione del personale - Estraneità.

In materia di licenziamenti collettivi per riduzione del personale la legge 23 luglio 1991 n. 223, nel prevedere agli art. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato "ex post" nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto "ex ante" alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale ma la correttezza procedurale della operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati art. 4 e 5, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di una indagine sulla presenza di "effettive" esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva.

Licenziamento collettivo - Unicità del criterio di scelta del personale - Possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione - Accordo tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali - Legittimità - Contenuto della comunicazione ex art. 4, c. 9, l. n. 223/91 - Elenco nominativo dei lavoratori da licenziare - Sufficienza

Posto che la specificità dell'indicazione delle modalità di applicazione del criterio di scelta adottato è funzionale a garantire al lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo la piena consapevolezza delle ragioni per cui la scelta è caduta su di lui, in modo da consentirgli una puntuale contestazione della misura espulsiva, il parametro per valutare la conformità della comunicazione al dettato di cui all'art. 4, c. 9, deve essere individuato nell'idoneità della comunicazione, con riferimento al caso concreto, di garantire al lavoratore la suddetta consapevolezza. Ne consegue che è adeguatamente specifica la comunicazione che consista nell'elenco dei soli lavoratori da licenziare e nell'indicazione dell'unico criterio di scelta individuato, consistente nel possesso dei requisiti previsti dalla legge per avere diritto alla pensione di anzianità o di vecchiaia.

Nota

La Corte d'Appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991, sulla scorta delle seguenti considerazioni:

a) non sussistono i presupposti fattuali del licenziamento, atteso che la procedura di licenziamento collettivo non è stata attuata per la necessità di ridurre il costo del lavoro (come dedotto dal datore di lavoro) ma esclusivamente per garantire uno svecchiamento del personale, tant'è che, dopo i licenziamenti, sono stati assunti numerosi lavoratori a termine; b) sussiste violazione dell'art. 4, c. 9, L. 223/1991, non risultando puntualmente indicate le modalità di applicazione dei criteri di scelta.

Avverso la predetta sentenza, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi, con i quali, principalmente, lamentava vizio di motivazione nella parte in cui l'impugnata sentenza ha illegittimamente sindacato il merito delle scelte aziendali, senza limitarsi a valutare la correttezza della procedura prevista dalla legge.

Si denunciava, altresì, violazione e falsa applicazione degli artt. 4, c. 9 e 5 L. n. 223/91, nonché vizio di omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (ex art. 360, n. 5 c.p.c.), laddove la Corte di merito ha omesso di considerare che:

1) il criterio di scelta adottato, per effetto di accordo sindacale, è unico (id est: possesso dei requisiti pensionistici) e non lascia margini di discrezionalità all'azienda, consentendo una precisa individuazione dei lavoratori da licenziare, tanto più che il numero dei lavoratori con diritto a pensione è inferiore a quello del personale ritenuto in esubero; 2) l'azienda, sin dal primo grado di giudizio, ha prodotto l'elenco dei lavoratori interessati al licenziamento, con l'indicazione delle date di nascita e degli anni di contribuzione; 3) non è necessario che nella comunicazione finale vi fosse anche la dettagliata comparazione di ciascun lavoratore licenziato rispetto a tutti gli altri che hanno conservato il posto di lavoro. La Suprema Corte, valutati unitariamente i suddetti motivi ha accolto il ricorso (cassando la sentenza impugnata e rigettando la domanda del lavoratore) richiamando, a supporto del proprio decisum, la copiosa giurisprudenza di legittimità formatasi, in senso favorevole all'azienda, su controversie aventi lo stesso oggetto (cfr. ex plurimis Cass. 17/04/2014, n. 8971; Cass. 21/02/2012, n. 2516; Cass. 15/03/2011, n. 6030; Cass. 11/12/2010, n. 24343). Ed invero, la Suprema Corte, preliminarmente, si è soffermata su alcuni principi, ormai pacificamente riconosciuti, in materia di licenziamenti collettivi, dai quali la Corte territoriale si è palesemente discostata: a) l'insindacabilità delle ragioni sottese alla riduzione di personale e la sottoposizione a controllo giudiziale soltanto della regolarità della procedura seguita (Cass. 03/03/2009, n. 5089); b) l'irrilevanza della giustificazione causale, sia ai fini della legittimità dell'operazione di riduzione di personale sia rispetto alla legittimità dei singoli licenziamenti alla stessa riconducibili; c) la strumentalità della comunicazione iniziale al controllo e alla effettiva partecipazione sindacale al processo decisionale dell'impresa atteso che non è il contenuto dettagliato e preciso della comunicazione iniziale a garantire la legittimità del comportamento datoriale, ma la concreta possibilità offerta al Sindacato di esercitare le prerogative di controllo (preventivo) previste dalla legge; d) la necessità di ancorare la valutazione della sufficienza della comunicazione iniziale ai motivi di riduzione del personale in concreto dedotti, cosicchè, qualora il progettato ridimensionamento dell'organico corrisponda all'esigenza di ridurre il costo del lavoro, la comunicazione iniziale può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, senza specificazione della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente, e ciò tanto più in presenza di un accordo con i sindacati che adotti, quale criterio di scelta, quello del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione (cfr. ex plurimis Cass. 17/04/2014, n. 8971; Cass. 21/02/2012, n. 2516); e) la legittimità, quale unico criterio di scelta, del possesso dei requisiti pensionistici, avendo ritenuto tale criterio contrattuale (collegato alla possibilità di fruire del trattamento pensionistico di anzianità o di vecchiaia) conforme al principio di ragionevolezza e non discriminazione (cfr. ex plurimis Cass. 01/12/2010, n. 24343; Cass. 26/09/2002, n. 13962; Cass. 02/09/2003, n. 12781).

Degna di rilievo, poi, è la parte della sentenza in cui si afferma (coerentemente a Cass. 06/06/2011, n. 12196) che la valutazione di adeguatezza della comunicazione finale ex art. 4, c. 9, l. 223/91 va "contestualizzata", ossia va effettuata alla luce del caso concreto, tenendo conto del criterio di scelta adottato, al fine di verificare se il lavoratore sia stato messo realmente in condizione di comprendere la scelta datoriale per poi poterla contestare. Ebbene, la Suprema Corte, coerentemente con tale principio, ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato l'illegittimità della procedura sulla base del mero rilievo formale che la comunicazione finale conteneva l'elenco dei lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo e non di tutti i dipendenti tra i quali era stata operata la scelta. A dire della Suprema Corte, infatti, la Corte territoriale non ha considerato che la comunicazione indicava specificamente il criterio di scelta, individuato in sede di accordo sindacale, del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, la cui natura oggettiva rendeva superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso.




Infortunio in itinere e indennizzabilità

Cass. Sez. Lav. 18 febbraio 2015, n. 3292

Pres. Curzio; Rel. Marotta; Ric. A.S.Z.; Contr. I.N.A.I.L.;

Previdenza (assicurazioni sociali) - Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Infortunio - Occasione di lavoro - Rischio specifico - Rischio elettivo - Infortunio in itinere - Indennizzabilità - Condizioni - Violazione di norme fondamentali del codice della strada - Esclusione - Fattispecie.

In tema di infortunio "in itinere", il rischio elettivo che ne esclude la indennizzabilità deve essere valutato con maggior rigore che nell'attività lavorativa diretta, comprendendo comportamenti di per sé non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza. Ne consegue che la violazione di norme fondamentali del codice della strada può integrare il rischio elettivo che esclude il nesso di causalità tra attività protetta ed evento.

Nota

La sentenza in commento trae origine da una sentenza del Tribunale di Campobasso che aveva rigettato il ricorso proposto da un coltivatore diretto, titolare di un'azienda di allevamento, contro l'INAIL per far accertare che l'infortunio occorsogli mentre era alla guida della propria auto diretto a raggiungere un'azienda agricola fosse da riconoscere quale infortunio in occasione di lavoro e conseguentemente per sentir condannare l'Istituto alla liquidazione della rendita dovuta per legge. Il Tribunale di Campobasso, in particolare, aveva ritenuto che l'infortunio si fosse verificato per rischio elettivo cui il ricorrente si era volontariamente esposto mentre era alla guida della propria auto.

La Corte d'Appello, successivamente adita, confermava la decisione di primo grado, affermando come l'appellante non avesse fornito la prova della diretta eziologia causale dell'evento infortunio e, in ogni caso, che l'incidente fosse stato patito dall'appellante stesso per sua colpa, consistita nell'aver provocato una violenta collisione con altra autovettura proveniente dalla opposta direzione di marcia dopo avere eseguito una manovra di sorpasso su un tratto di strada che tale condotta vietava, in prossimità di una curva e tenendo una velocità non adeguata alle condizioni stradali.

Il coltivatore proponeva ricorso per Cassazione lamentando l'erroneità della pronuncia di secondo grado sul punto della rilevanza della colpa e della ritenuta sussistenza del c.d. rischio elettivo.

Secondo l'assunto del ricorrente ai fini dell'indennizzabilità dell'infortunio in itinere sarebbe irrilevante la colpa dell'infortunato e che il rischio elettivo non andrebbe valutato con così tale ampiezza da ricomprendervi anche le ipotesi in cui il lavoratore contravvenga alle regole della circolazione stradale.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso uniformandosi al proprio precedente orientamento secondo il quale, in tema di infortunio "in itinere", il rischio elettivo che ne esclude la indennizzabilità deve essere valutato con maggior rigore che nell'attività lavorativa diretta, comprendendo comportamenti di per sé non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza. Ne consegue che la violazione di norme fondamentali del codice della strada può integrare il rischio elettivo che esclude il nesso di causalità tra attività protetta ed evento.

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi al caso di specie, rilevando come la condotta del ricorrente, violativa di norme fondamentali del codice della strada, esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, integrasse un aggravamento del rischio talmente esorbitante dalle finalità di tutela da escludere la stessa, risultando idonea a interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata. In altri termini, secondo i giudici di merito, si sarebbe trattato di una scelta colpevole del ricorrente dettata da un atteggiamento e condotta non giustificabili o superflue e comunque controindicate rispetto al risultato da raggiungere. Valutandosi, infatti, il comportamento di guida - gravemente imprudente - come del tutto arbitrario ed esorbitante rispetto al comune rischio connesso alle usuali modalità di esecuzione della prestazione, lo stesso, secondo la Suprema Corte, è stato correttamente ricondotto al c.d. rischio elettivo, in grado di incidere, escludendola, sull'occasione di lavoro, per essere inesistente il nesso tra l'attività posta in essere dal lavoratore, dalla quale è derivato l'evento infortunistico, e l'attività lavorativa.




E' subordinato il pensionato che svolge attività analoga a quella che eseguiva come dipendente

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2015, n. 4346

Pres. Colletti De Cesare; Rel. Buffa; Ric. M.L.G.M. S.p.A.; Controric. I.N.A.I.L. e I.N.P.S.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Nozione - Elemento distintivo e parametro normativo del rapporto di lavoro subordinato - Subordinazione - Volontà delle parti - Rilevanza - Esclusione - Elementi costitutivi - Individuazione - Relativo accertamento del giudice di merito - Incensurabilità in sede di legittimità - Limiti.

Ai fini della distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, deve attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, piuttosto che al "nomen iuris" adottato dalle parti. Inoltre, gli elementi quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la forma della retribuzione, ed eventuali altri, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire gli indici rivelatori, complessivamente considerati e tali da prevalere sull'eventuale volontà contraria manifestata dalle parti, attraverso i quali diviene evidente nel caso concreto l'essenza del rapporto, e cioè la subordinazione, mediante la valutazione non atomistica ma complessiva delle risultanze processuali. La relativa valutazione di fatto di tali elementi è rimessa al giudice del merito, con la conseguenza che essa, se risulta immune da vizi giuridici ed adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità, ove, invece, è censurabile soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto.

Nota

La sentenza in commento affronta la questione della qualificazione dei rapporti intercorsi tra una società ed alcuni lavoratori, i quali, già dipendenti della prima, a seguito del pensionamento, avevano concluso con la medesima impresa alcuni contratti di collaborazione continuativa e coordinata, aventi ad oggetto un'attività analoga a quella svolta in precedenza come dipendenti, sub specie di affiancamento e formazione di lavoratori neoassunti.

La Corte d'Appello, in parziale accoglimento del gravame proposto dai prestatori, dopo aver accertato la natura subordinata dei predetti rapporti di lavoro, aveva condannato la società al pagamento di contributi e sanzioni a favore dell'Inps e dell'Inail.

Avverso tale decisione l'impresa proponeva ricorso per cassazione, deducendo, tra il resto, vizio di motivazione della sentenza poiché la stessa avrebbe "travisato" la differenza tra l'attività precedentemente svolta dai lavoratori in questione in virtù dei pregressi contratti di lavoro subordinato e gli incarichi svolti in esecuzione dei rapporti di collaborazione, nonché "trascurato" l'entità della differenza del compenso percepito, la corresponsione dello stesso indipendentemente dal tempo impiegato nonché l'assenza di direttive nonché di vincolo d'orario.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso sulla base di un'articolata motivazione.

Anzitutto, i giudici di legittimità ribadiscono il carattere non decisivo della qualificazione del rapporto espressa dalla volontà delle parti, occorrendo far sempre riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione.

La Cassazione osserva, altresì, che la valutazione del giudice di merito della natura effettiva del rapporto deve operarsi avuto riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore ed al modo della sua attuazione. Sicché, ove l'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari - come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario predeterminato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione.

Con specifico riguardo al caso di specie, la Suprema Corte - facendo applicazione dei predetti principî - reputa decisivi, ai fini della configurazione di un rapporto di lavoro subordinato, i seguenti elementi: il pieno inserimento dei lavoratori sia nell'attività di impresa, rapportandosi il loro lavoro a quello delle altre maestranze, sia nell'organizzazione dell'impresa, operando con strumenti, in luoghi e secondo procedure aziendali determinate dal datore di lavoro; la peculiarità delle mansioni svolte, che consistevano in addestramento realizzato solo lavorando a fianco del personale da formare e con prestazione del medesimo lavoro già svolto in precedenza in costanza del rapporto di lavoro subordinato.

Conclusione - quella della natura subordinata dei contratti in contesa - che i giudici di legittimità argomentano confutando, altresì, i presunti indici di autonomia addotti dalla società:

segnatamente, la Corte rileva che l'elevata esperienza dei lavoratori giustificava limitate direttive nei loro confronti ed era anche alla base di una maggior retribuzione rispetto a quella corrisposta prima del pensionamento (peraltro realizzata, soggiunge la Cassazione, "sfruttando le risorse risparmiate dal mancato versamento della contribuzione conseguente alla formalizzazione del rapporto quale autonomo").

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