Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Procedimento disciplinare e principio del contraddittorio
Infortunio sul lavoro e indennizzo Inail
Recesso ante tempus da un contratto a termine illegittimo
Responsabilità solidale del committente con l'appaltatore

Procedimento disciplinare e principio del contraddittorio

Cass. Sez. Lav. 20 giugno 2019, n. 16598

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Celentano; Ric. N.A.; Controric. E.D. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Procedimento disciplinare - Audit interna - Fase prodromica alla contestazione dell'addebito - Principio del contraddittorio - Esclusione

Lavoro subordinato - Contestazione disciplinare - Tempestività - Effettiva conoscenza da parte del datore - Necessità - Fattispecie: contestazione elevata ad ottobre 2010 per molteplici fattispecie realizzate tra agosto 2009/luglio 2010 - Legittimità

Il principio del rispetto della regola del contraddittorio governa esclusivamente l'ambito del procedimento disciplinare, in quanto essenziale presupposto di irrogazione delle sanzioni disciplinari, dovendo invece ritenersi legittime le indagini preliminari del datore di lavoro che siano volte ad acquisire elementi di giudizio necessari per verificare la configurabilità (o meno) di un illecito disciplinare e per identificarne il responsabile, attenendo ad un momento ancora anteriore alla fase procedimentalizzata - e meramente eventuale - per la quale unicamente è prevista alla rituale contestazione dell'addebito, con possibilità per il lavoratore di difendersi anche con l'assistenza dei rappresentanti sindacali.
L'immediatezza della contestazione deve essere intesa in senso relativo e obbliga l'imprenditore a portare a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiano ragionevolmente sussistenti, non consentendo di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto. In buona sostanza occorre tener conto del momento di effettiva conoscenza datoriale dell'inadempimento contestato al dipendente e se non è consentito dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di avere la assoluta certezza dei fatti, tuttavia, nel momento in cui la contestazione viene elevata essa deve essere sufficientemente precisa e dettagliata, in modo da consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente. Pertanto, il requisito della tempestività va bilanciato con quello della specificità, che deve del pari essere rispettato.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società, ritenendo tempestiva e specifica la contestazione dell'addebito al dipendente e proporzionata alla condotta ascritta al lavoratore («sostituzione arbitraria di sei condizionatori, omessa segnalazione di palesi manomissioni della sigillatura esterna, installazione di due misuratori manomessi prima del montaggio e falsità delle motivazioni tecniche che avrebbero giustificato la sostituzione delle apparecchiature») la sanzione irrogata.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione. Con il primo motivo, ha censurato la sentenza impugnata «per avere negato che il procedimento disciplinare di cui alla disposizione statutaria sia governato dal principio del contraddittorio anche nella fase di accertamento della mancanza».
In particolare, sarebbe stato leso il diritto di difesa del lavoratore per non avere questi potuto interloquire con la società già nella fase di accertamento della condotta illecita, allorché erano state disposte verifiche sui contatori manomessi.
La Suprema Corte ha respinto tale motivo di impugnazione, ricordando che il principio del rispetto della regola del contraddittorio governa, esclusivamente, l'ambito del procedimento disciplinare, «in quanto essenziale presupposto di irrogazione delle sanzioni disciplinari» (in questo senso, Cass. 27/11/2018, n. 30679 e Cass. 8/8/2003, n. 12027). La Corte ha altresì affermato che sono legittime le indagini preliminari condotte dal datore di lavoro, volte all'accertamento della sussistenza (o meno) di un illecito disciplinare e all'identificazione del responsabile, «attenendo a un momento ancora anteriore alla fase procedimentalizzata», rispetto alla quale non vigono le garanzie di cui all'art. 7, L. 300/1970, di audizione a difesa del lavoratore interessato da tali verifiche.
Con il secondo motivo di ricorso il lavoratore ha censurato la sentenza impugnata per l'avere ritenuto tempestiva e specifica la contestazione dell'addebito, nonostante la lettera di contestazione disciplinare fosse stata consegnata nel novembre 2010, a fronte di condotte verificatesi in tempo risalente (tra i mesi di agosto 2009 e di luglio 2010).
Anche tale motivo di ricorso è stato ritenuto infondato dalla Suprema Corte. La Corte ha infatti evidenziato che il requisito della tempestività va bilanciato con quello della specificità e che «occorre tener conto del momento di effettiva conoscenza datoriale dell'inadempimento contestato al dipendente (Cass.15/07/2014 n. 16138) e se non è consentito dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di avere la assoluta certezza dei fatti, tuttavia, nel momento in cui la contestazione viene elevata, essa deve essere sufficientemente precisa e dettagliata, in modo da consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente» (in questo senso si vedano, ex pluribus, Cass. 20/6/2014, n. 14103 e Cass. 12/1/2016, n. 281)
La Corte ha dunque rigettato il ricorso del lavoratore ed ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto tempestiva la contestazione datata 19/11/2010, per gli episodi verificatisi in un ampio arco temporale -da agosto 2009 a luglio 2010- per i quali erano stati necessari approfonditi accertamenti tecnici.
Il licenziamento per giusta causa è stato dunque ritenuto legittimo.

Infortunio sul lavoro e indennizzo Inail

Cass. Sez. Lav. 22 maggio 2019, n. 13868

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. G.F.; Controric. F.C.N.I.

Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Responsabilità - Risarcimento del danno – Danni complementari - Concorrenza dell'indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 - Condizioni - Danni complementari.

Le prestazioni dovute dall'INAIL a titolo di indennizzo in seguito all'entrata in vigore del D.lgs. n. 38 del 2000 non sono a priori integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno in capo al soggetto infortunato o ammalato; il datore di lavoro, anche ove ricorra una ipotesi in cui è operante l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, resta debitore e titolare dal lato passivo dell'obbligazione di risarcire i danni complementari, secondo le regole civilistiche ed a prescindere da ogni responsabilità penale, e differenziali, finanche se l'Istituto non abbia in concreto provveduto all'indennizzo stesso.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore adiva il Tribunale chiedendo la condanna del suo datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale patito a causa dell'asbestosi pleurica e della broncopatia ostruttiva contratte per l'inalazione di polveri sottili d'amianto adoperate nello svolgimento della prestazione senza le doverose cautele da parte della datrice di lavoro. A seguito del decesso del dante causa proseguirono il giudizio gli eredi del lavoratore.
Il Tribunale rigettava la domanda del lavoratore, decisione che veniva confermata anche in sede d'appello. In particolare la Corte di merito riteneva che «la liquidazione dell'indennizzo a carico dell'Inail si configura come una vera e propria conditio iuris della domanda risarcitoria in difetto della quale il danneggiato non può agire nei confronti del responsabile civile» e concludeva affermando che il ricorso di primo grado non conteneva una compiuta declinazione dei connotati di specificità del pregiudizio alla persona che avrebbero potuto giustificare la richiesta del c.d. danno differenziale.
Gli eredi del lavoratore hanno proposto ricorso per cassazione censurando l'assunto della Corte d'Appello secondo cui la liquidazione dell'indennizzo Inail sarebbe una conditio iuris dell'azione nei confronti del datore di lavoro responsabile civile e lamentando l'erroneità della sentenza impugnata per avere rigettato le domande di risarcimento del danno non patrimoniale subito dal de cuius, dovendosi al contrario ritenere sufficientemente specificati il petitum e la causa petendi.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ribadendo il principio ormai consolidato secondo cui «Le somme eventualmente versate dall'Inail a titolo di indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l'inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all'evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal d.P.R. n. 1124 del 1965, ed in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio, alla verifica dell'applicabilità dell'art. 10 del decreto citato, ossia all'individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (cd. "danni complementari"), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile; ove siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, potrà pervenire alla determinazione dell'eventuale danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, dal quale detrarre quanto indennizzabile dall'Inail, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, ed a tale ultimo accertamento procederà pure dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all'indennizzo, ed anche se l'Istituto non abbia in concreto provveduto all'indennizzo stesso».

Recesso ante tempus da un contratto a termine illegittimo

Cass. Sez. Lav. 14 giugno 2019, n. 16052

Pres. Di Cerbo; Rel. Blasutto; P.M. Cimmino; Ric. P.M. s.n.c.; Contr. C.A.M.;

Contratto a termine – Nullità – Dimissioni rassegnate dal lavoratore prima della scadenza – Conseguenze: conversione del rapporto fino alla data delle dimissioni – Indennità ex art. 32, comma 5, l. n. 183/2010 – Esclusione.

L'indennità ex art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, ha la funzione di ristorare il lavoratore durante il periodo cd. intermedio, vale a dire quello che intercorre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità dello stesso e dichiara la conversione del rapporto. Conseguentemente, nell'ipotesi in cui il lavoratore rassegni le proprie dimissioni prima della scadenza naturale del termine, non avrà diritto all'indennizzo ex art. 32, comma 5, atteso che il rapporto di lavoro si è interrotto per volontà del lavoratore e, dunque, manca il periodo cd. intermedio risarcibile per fatto imputabile al datore di lavoro.
NOTA
Nel caso sottoposto all'esame della Cassazione, la Corte di appello di Trieste, confermando la decisione emessa dal Tribunale di Gorizia, dichiarava la nullità del termine apposto ad contratto di lavoro a tempo determinato, atteso che lo stesso risultava essere stato stipulato per sostituire una dipendente assente per maternità, ma nessuno dei testi aveva saputo riferire alcunché circa l'identità della persona in astensione. Per l'effetto, la Corte di merito dichiarava che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla data di sottoscrizione, agosto 2012, fino al dicembre 2012, epoca in cui la lavoratrice assunta a termine aveva rassegnato le dimissioni. Inoltre, condannava il datore di lavoro al pagamento di un indennizzo, ai sensi dell'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Avverso tale pronuncia, il datore di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando, la violazione dell'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, tenuto conto che il rapporto di lavoro a termine era cessato qualche mese prima della naturale scadenza, in ragione delle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice e che, pertanto, erroneamente, a parere della società ricorrente, i giudici di merito avevano riconosciuto l'indennizzo previsto dalla norma, in assenza di un pregiudizio risarcibile relativo al periodo compreso tra la scadenza del termine e il provvedimento giudiziale di conversione del rapporto di lavoro.
La Suprema Corte ritiene fondato il motivo rilevando che l'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, limita l'ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro, fissandolo nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto e disponendo che esso ristora per intero il pregiudizio subìto dal lavoratore, ivi incluse le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto. Peraltro, proseguono i giudici di legittimità, la Corte Cost. ha avuto modo di chiarire, con la sent. n. 226 del 2014, come tale indennità copra soltanto il periodo "intermedio", quello cioè che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. Ebbene, rileva la Cassazione, il riconoscimento del danno forfettizzato ex art. 32, comma 5, presuppone, necessariamente, sia l'esistenza del periodo intermedio da risarcire, sia l'esistenza di una sentenza che, oltre a dichiarare la conversione ab initio del rapporto a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, disponga la riammissione in servizio del lavoratore, considerato che il danno è configurabile, oltre che per l'imputabilità della mancata prestazione al datore di lavoro, ove esista un periodo in cui il rapporto di lavoro - de iure ricostituito dalla sentenza dichiarativa della nullità del termine - avrebbe potuto continuare.
Nel caso in esame, invece, rileva la Cassazione, una volta che la sentenza di primo grado ha dichiarato la nullità del termine, ha provveduto alla conversione del rapporto senza tuttavia disporre la riammissione in servizio della lavoratrice, perché, nei fatti, il rapporto si era risolto per dimissioni intervenute prima della scadenza del termine. E' dunque mancato un "periodo intermedio" risarcibile per fatto imputabile al datore di lavoro, ragione per cui la sentenza viene cassata senza rinvio, con il rigetto della domanda di indennizzo ex art. 32, comma 5, l. n. 183/2010.

Responsabilità solidale del committente con l'appaltatore

Cass. Sez. Lav. 12 giugno 2019, n. 15756

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; Ric. A.P.L.I. S.p.A.; Controric. S.M. e altri.

Appalto (contratto di) - Ausiliari dell'appaltatore - Diritti verso il committente – Trattamenti retributivi dei dipendenti dell'appaltatore o subappaltatore - Nozione - Responsabilità solidale del committente ex art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 - Indennità sostitutiva ferie e permessi - Esclusione.

Il regime della responsabilità solidale del committente con l'appaltatore di servizi opera, ex art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, con riguardo agli emolumenti, al cui pagamento il datore di lavoro risulti tenuto in favore dei propri dipendenti, aventi natura strettamente retributiva e concernenti il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall'appalto.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte fissa i confini della responsabilità patrimoniale solidale del committente nei confronti dei dipendenti dell'appaltatore.
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio per l'accertamento del proprio credito, e la conseguente condanna del committente, al pagamento di retribuzioni mensili, TFR, indennità sostitutiva del preavviso, mensilità aggiuntive nonché indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti.
I Giudici di merito accoglievano l'azione del lavoratore, affermando che la locuzione contenuta nell'art. 29, c. 2, del D.Lgs. n. 276/2003 - «trattamenti retributivi dovuti» - si riferiva a tutti i crediti scaturenti dal rapporto di lavoro, senza distinguere tra quelli di natura strettamente retributiva e quelli di natura indennitaria.
La società committente proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, l'errore dei Giudici d'appello consistente nell'aver ritenuto applicabile il regime della solidarietà anche a crediti vantati dal dipendente dell'appaltatore non aventi natura strettamente retributiva.
La Cassazione accoglie solo parzialmente tale censura.
Anzitutto, il Supremo Collegio ribadisce, conformemente al proprio costante insegnamento, che la garanzia di solidarietà ex art. 29 cit. concerne soltanto i crediti aventi natura strettamente retributiva, con esclusione, quindi, delle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno.
Praticamente - soggiungono i Giudici di legittimità - la solidarietà si applica sia al credito per TFR che al credito per mensilità aggiuntive, ponendosi entrambi «in stretta corrispettività con l'espletamento della prestazione lavorativa». Di contro, da tale regime va esclusa l'indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti, difettando la natura strettamente retributiva.

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