I rapporti conflittuali provenienti dal datore non costituiscono mobbing
Con ordinanza n. 10043 del 10 aprile 2019, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sui requisiti richiesti perché una serie di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro possano integrare gli estremi del mobbing, nella specie denunciato da un dirigente che aveva dichiarato di essere stato vittima di una serie di comportamenti presentati come pregiudizievoli della sua posizione (nello specifico: immotivato cambio di stanza, tardivo o omesso riscontro alle sue richieste chiarimenti organizzativi, mancanza di direttive).
Nei giudizi di merito, il dirigente aveva visto prima accolte e, in sede di appello, respinte, le proprie domande di accertamento della sussistenza degli estremi del mobbing e il conseguente diritto al risarcimento per i danni non patrimoniali allegati.
La Corte d'appello aveva in particolare ritenuto non raggiunta la prova sulla sussistenza di un'univoca strategia mobbizzante ai danni del dirigente, con ciò respingendo la relativa richiesta risarcitoria. Nondimeno, la Corte d'appello aveva comunque riconosciuto il diritto del dirigente a vedersi risarcito il danno a titolo di responsabilità ex articolo 2087 del Codice civile, con riferimento ad un unico episodio nel quale il dirigente era stato destinatario di affermazioni ingiuriose da parte del direttore generale della società, potendo anche offrire in giudizio elementi inconfutabili circa l'ingiuria subita, un pregiudizio alla salute conseguitone, ed il nesso causale tra la condotta e il pregiudizio (confermato, peraltro, dalla Ctu medico legale acquisita agli atti del processo).
Avverso la sentenza di appello, il dirigente proponeva ricorso per cassazione, denunciando che i giudici territoriali avevano omesso di esaminare taluni fatti decisivi della controversia.
Respingendo il ricorso del dirigente, la Cassazione ha avuto modo di sottolineare che l'accertamento complessivo dei fatti era risultato chiaro e convincente, posto che la Corte d'appello aveva motivato la propria decisione in modo coerente ed esente da vizi logico argomentativi. Al riguardo, nessun rilievo riconosceva la Suprema Corte al fatto che i giudici territoriali non avessero considerato ai fini della qualificazione della fattispecie i denunciati «rapporti tesi e conflittuali fra le parti», in quanto inidonei a dimostrare un intento persecutorio nei confronti del dirigente.
Si segnala che il principio espresso dalla Cassazione si pone in parziale contrasto con altra recente pronuncia che aveva invece riconosciuto come le critiche provenienti dal datore di lavoro potessero ben qualificare gli estremi della condotta mobbizzante (Corte di Cassazione n. 23923/2009).
Ciò posto, dall'esame dell'orientamento generale e solitamente condiviso della Corte di cassazione può in ogni caso dirsi pacifico che l'accertamento del mobbing presuppone non tanto un singolo atto lesivo o di condotte multiple ma tra loro non correlate, bensì la reiterazione di una pluralità di atteggiamenti e fatti, anche se non connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell'esprimere l'ostilità del soggetto attivo verso la vittima, sia nell'efficace capacità di mortificare e isolare il dipendente dall'ambiente di lavoro. Circostanze che, nel caso di specie, non erano state concretamente allegate e provate.
Concludendo, con l'ordinanza in commento, la Cassazione ha confermato la necessità che il lavoratore, su cui incombe l'onere della prova, è tenuto a dimostrare la denunciata e patita condotta mobbizzante, adducendo i fatti caratterizzanti (continuativi e decisivi), che in maniera inconfutabile integrino gli estremi di un intento persecutorio.