La carica dei designer alla ricerca di un’identità
Prima erano soprattutto architetti, mentre da un po’ di tempo alla professione del designer si accede da diverse strade. Ci sono le scuole universitarie, come quella del Politecnico di Milano, i corsi di laurea all’interno delle facoltà di architettura, le accademie di belle arti, gli istituti di formazione pubblici e privati. Senza contare che - oggi come in passato - la creatività di chi concepisce e realizza oggetti belli e utili non deve per forza di cose avere il “bollino” di una scuola. «Il designer può anche essere un autodidatta. Ci sono esempi illustri», commenta Marco Tortoioli Ricci, presidente di Aiap, l’associazione del design della comunicazione visiva.
Il quadro è, insomma, variegato. «Il designer non è una figura riconosciuta dallo Stato. Non ha un Albo. Alla fine è il mercato a stabilire le regole», aggiunte Tortoioli Ricci.
In cerca di un’identità
C’è, però, la voglia di maggiore uniformità. Il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, ha insediato una commissione che di recente ha prodotto un documento. L’obiettivo è mettere a rete il sistema del design, dai professionisti che pensano gli oggetti alle aziende che li realizzano. L’idea è quella di un’agenzia a cui affidare il ruolo di regia.
«Un percorso di accreditamento - afferma Luciano Galimberti, presidente dell’Adi, l’associazione del design industriale - che avevamo già intrapreso, in mancanza di un Ordine, lavorando su norme Uni e qualità delle prestazioni».
D’altra parte, l’Albo degli architetti è precluso ai designer. Tolti quanti affrontano la professione con una laurea di architettura in tasca, tutti gli altri, che comunque provengono da percorsi universitari, non possono chiedere di accedere all’Albo. «C’è un problema di classi dei corsi di laurea diverse - spiega Paolo Malara, del Consiglio nazionale degli architetti -. È arrivato il momento di rivederle».
Anche perché il settore del design è vivace. Il made in Italy è un ottimo biglietto da visita apprezzato in tutto il mondo, «i corsi di laurea crescono e le prospettive occupazionali sono interessanti. Tutto questo - sottolinea Marco Aimetti, anch’egli consigliere nazionale degli architetti - mentre il numero degli iscritti alle facoltà di Architettura diminuisce. Eppoi, sono convinto che in futuro progettisti e designer dialogheranno sempre di più. Anche nella realizzazione di edifici. Ci sarà sempre maggiore ibridazione tra le due professioni, che, comunque, non coincideranno: architetto e designer resteranno due attività contigue ma diverse».
La formazione e le prospettive
E questo perché se nella formazione del designer è presente una componente architettonica e ingegneristica, c’è pure dell’altro. I corsi della scuola di design del Politecnico di Milano - nata nel Duemila, la prima in Italia - si concentrano, soprattutto con finalità pratiche perseguite attraverso i laboratori, su aspetti tecnici, «ma ci sono anche - chiarisce Francesco Zurlo, preside vicario della scuola - insegnamenti come antropologia culturale, sociologia e psicologia». La domanda è in crescita, soprattutto per i corsi triennali. «Riceviamo in media 4mila domande l’anno - prosegue Zurlo - e abbiamo 900 posti, da suddividere nei quattro corsi: prodotto industriale, interni, comunicazione e moda. Le disponibilità della magistrale, dove un terzo degli studenti è straniero, sono poco meno: circa 800».
Una richiesta giustificata dalle prospettive di lavoro. Per i laureati del Politecnico la percentuale di occupazione va, a seconda dei corsi, dall’85 al 95 per cento. Le offerte arrivano dalle aziende italiane, anche se «è bene avere voglia di spostarsi in altre realtà. Perché - avverte Galimberti - un’esperienza all’estero, dove si può spendere il marchio della creatività italiana, diventa importante».
Potrà, infatti, essere inserita nel portfolio da presentare per i futuri colloqui di lavoro. E questo anche se si decide di intraprendere la strada della libera professione, che al momento rimane minoritaria rispetto a chi sceglie la via del lavoro in azienda. Dove resta il problema dell’inquadramento. «Le soluzioni sono le più varie. C’è chi viene assunto con il contratto del commercio. In passato mi è capitato di entrare con il contratto dei bancari. Problemi che - fa notare Tortoioli Ricci - non esistono all’estero: in Olanda, Germania, Inghilterra e nei Paesi scandinavi la professione è riconosciuta e i profili di assunzione chiari».
Identikit dei creativi