Contenzioso

Repêchage, reintegra solo per violazione manifesta

di Giuseppe Bulgarini d'Elci


Ai fini della reintegrazione non è sufficiente che il datore di lavoro, allo scopo di evitare il licenziamento, non abbia adeguatamente provato l'impossibilità di ricollocare il dipendente nella propria organizzazione, perché tale circostanza deve risultare in modo incontrovertibile ed essere facilmente riscontrabile.

In presenza di un licenziamento per motivo oggettivo, alla luce dell'articolo 18, comma 7, dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) il reintegro sul posto di lavoro presuppone la “manifesta insussistenza del fatto”, che ricomprende tanto il requisito delle esigenze tecniche, produttive od organizzative alla base del recesso datoriale, quanto la verifica sulla possibilità di ricollocare altrove il lavoratore all'interno della struttura aziendale.

La Cassazione precisa (sentenza 26460/2019, depositata il 17 ottobre) che, perché possa operare la tutela reale, la violazione dell'obbligo di repêchage deve risultare in modo immediatamente evidente e facilmente dimostrabile, perché la semplice incompleta o insufficiente dimostrazione a carico del datore dà unicamente luogo al meccanismo indennitario di tutela (tra 12 e 24 mensilità).

La Cassazione osserva, in altre parole, che la reintegrazione opera solo nel caso in cui sia riscontrato in modo evidente e facilmente verificabile che il fatto su cui poggia il motivo oggettivo di licenziamento, inclusa l'impossibile ricollocazione, appare manifestamente insussistente. Se, invece, il datore, a fronte della impugnazione giudiziale del licenziamento, non è in grado di fornire sufficienti evidenze sull'adempimento dell'obbligo di repêchage, ciò non autorizza a concludere che si versi in ipotesi di manifesta insussistenza.

Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di legittimità si riferisce alla dipendente di un'impresa di pulizie, la quale era stata dapprima licenziata per essersi resa responsabile per la caduta dalla tromba delle scale, presso i locali dell'ente committente, di vari oggetti potenzialmente contundenti (un ventilatore, un telefono e un appendiabiti). Il giudice del lavoro aveva annullato il licenziamento e reintegrato la dipendente sul posto di lavoro, ma l'impresa di pulizie procedeva a un nuovo licenziamento sul presupposto che l'ente committente, ove la dipendente effettuava le pulizie prima del provvedimento espulsivo, aveva disposto il «divieto assoluto di accesso» della lavoratrice in quanto «persona non gradita».

La lavoratrice ha impugnato anche questo secondo licenziamento, evidenziando di poter essere ricollocata sulle stesse mansioni presso altri appalti detenuti dalla datrice di lavoro allo scopo di evitare il recesso.

La Cassazione, chiamata a riesaminare il caso, riscontra l'assenza di idonea prova sulla impossibilità di effettuare il repêchage e, quindi, conferma la illegittimità del licenziamento, ma al contempo esclude la reintegrazione poichè tale inadempimento non emergeva in modo manifesto, evidente e facilmente verificabile.

La sentenza n. 26460/2019 della Corte di cassazione

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