La proposta: lavoro agile (dove possibile) per i lavoratori asintomatici in quarantena
Le più recenti evoluzioni dell’epidemia di Covid-19 hanno dato impulso a una produzione normativa che non ha mancato di sollevare profili di criticità. Si consideri, ad esempio, l’articolo 1 dell’ordinanza del ministero della Salute del 12 agosto 2020, in base al quale il soggetto che abbia soggiornato o transitato in Spagna, Malta, Croazia e Grecia è tenuto a sottoporsi al tampone rino-faringeo entro 48 ore dall’ingresso in Italia, osservando un periodo di isolamento fiduciario sino all’effettuazione di tale esame. Fermo restando che risulta difficile rintracciare la ragione per la quale l’isolamento fiduciario debba protrarsi sino all’effettuazione del tampone e non sino alla comunicazione del relativo esito, la prescrizione, originariamente volta a contenere l’andamento dei contagi alla luce del sensibile incremento nel numero di soggetti contagiati per l’intensificazione dei flussi turistici, parrebbe assumere una differente “intonazione” quando solo si consideri come la vigenza di tale prescrizione sia stata da ultimo prorogata dal 7 settembre al 7 ottobre 2020 a opera dell’articolo 1, comma 2 del Dpcm 7 settembre 2020, perdendo “aderenza” rispetto all’andamento dei flussi turistici.
ll maggior numero di tamponi rino-faringei effettuati negli ultimi mesi ha peraltro fatto emergere casi che presentano elementi di novità. Tra questi, l’ipotesi di un lavoratore che sia risultato positivo al tampone pur senza manifestare alcun sintomo.
Il caso dei lavoratori asintomatici
Da più parti è stato sostenuto, forse con eccessiva rigidità sul piano interpretativo, che una volta rilasciato il certificato medico di malattia in base all’articolo 26, commi 1 e 3 del Dl 18 del 17 marzo 2020, il lavoratore “asintomatico” non possa in ogni caso prestare la propria attività lavorativa durante il periodo di quarantena, neppure quando sia lo stesso lavoratore a dichiarare formalmente al datore di lavoro la propria disponibilità a rendere la prestazione in regime di ’lavoro agile’ (rectius: remote working) e il medico competente non abbia ravvisato in tal senso alcuna controindicazione.
Il lavoro durante la quarantena
A ben vedere, il citato articolo 26, comma 1 del Dl 18/2020, prevede nel caso di specie che il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria, in ogni caso non computabile ai fini del comporto, è equiparato a malattia ai soli fini del trattamento economico stabilito dal vigente ordinamento. Una interpretazione letterale della disposizione, che limita l’equiparazione alla malattia all’esclusivo profilo del trattamento economico (retributivo o indennitario), parrebbe dare spazio a orientamenti sinora inediti.
L’elemento di novità e di maggior criticità sul piano interpretativo è rinvenibile nella coincidenza di una certificazione di malattia rilasciata al precipuo fine di contrastare e contenere il rischio di contagio e lo stato di salute del lavoratore che, come detto, non accusa alcun sintomo. Dunque, è bene portare in chiara evidenza come la certificazione di malattia non attesti nel caso in esame la temporanea incapacità al lavoro.
Alla luce di quanto sopra, per quali ragioni il certificato di malattia rilasciato in osservanza dell’articolo 26 del Dl 18/2020, dovrebbe impedire al lavoratore di svolgere la propria attività di lavoro secondo le modalità del lavoro agile?
Perché impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa del lavoratore asintomatico quando:
a) il lavoratore stesso abbia in tal senso formalmente dichiarato la propria disponibilità al datore di lavoro;
b) sul piano della sorveglianza sanitaria, il medico competente non abbia sollevato alcuna obiezione a che sia percorsa tale soluzione organizzativa; il datore di lavoro intenda accogliere la richiesta del lavoratore, giudicando compatibile con il proprio programma imprenditoriale il ricorso al lavoro agile, almeno per la durata del periodo di quarantena;
c) per l’intero periodo di quarantena sia stata corrisposta al lavoratore impiegato in regime di lavoro agile l’ordinaria retribuzione (eventualmente in luogo dell’indennità di malattia), provvedendo ovviamente al versamento della contribuzione obbligatoria di previdenza e assistenza e alle ritenute fiscali.
Tale soluzione potrebbe dunque costituire un “ottimo paretiano” sia per il lavoratore che per il datore di lavoro, così come per il competente istituto di previdenza (che non sarebbe tenuto a corrispondere indennità alcuna di malattia) e per l’erario.
Precludere questa possibilità sarebbe peraltro paradossale se solo si portasse a mente che un consolidato (e risalente) orientamento giurisprudenziale afferma che «in linea di principio, (…) non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante tale assenza, un’attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera» (Corte di Cassazione, sentenza 1° agosto 2016, n. 15989). Nel solco di questo orientamento si colloca da ultimo anche la sentenza della Corte del 2 settembre 2020, n. 18245.
Non si intravvede una contraddizione nell’impedire che il lavoratore asintomatico in quarantena presti la propria attività in regime di lavoro agile per il proprio datore di lavoro, consentendogli però di lavorare, pur sempre in remote working, per un terzo soggetto?