Tante vessazioni fanno il mobbing
Il mobbing non si esaurisce in una singola condotta, ma si concretizza in una serie di comportamenti e atti vessatori, ripetuti nel tempo, posti in essere dal datore di lavoro o dai pari grado del dipendente. Con questa massima (sentenza n. 74/2016, depositata ieri) la Corte di Cassazione - confermando la giurisprudenza formatasi in materia negli ultimi anni - ha concluso la controversia promossa da un lavoratore che aveva denunciato per mobbing il proprio datore di lavoro.
Il dipendente era stato prima spostato da un servizio (centri diurni) a un altro (servizio educativo handicap); successivamente, era stato sospeso dalla mansione dal lavoro e dalla retribuzione, a seguito del giudizio con il quale il medico competente lo aveva dichiarato inidoneo a svolgere gran parte delle attività tipiche di un educatore professionale. Lo stesso lavoratore aveva subito un provvedimento disciplinare per aver inviato in ritardo dei certificati medici, aveva subito la revoca di ferie e permessi e, infine, aveva denunciato un atteggiamento ostile dei colleghi di lavoro.
Queste condotte, secondo la Corte d'Appello di Torino, integravano la fattispecie del mobbing, e legittimavano la richiesta di un risarcimento dei danni conseguenti. La pronuncia della Cassazione conferma la decisione di merito, ricordando che il mobbing consiste in un fenomeno non tipizzato a livello legislativo, che designa una serie di atti e comportamenti vessatori, realizzati verso un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui egli è inserito oppure da parte del suo capo; tali atti devono essere caratterizzati, ai fini della configurazione del mobbing, da un intento di persecuzione ed emarginazione, finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. La Corte ricorda inoltre che, ai fini della configurabilità della condotta illecita, gli atti illeciti devono essere realizzati in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, e devono aver comportato una lesione alla salute, alla personalità o alla dignità del dipendente. La Cassazione conferma, inoltre, che il mobbing si può verificare anche quando la condotta illecita non viene attuata dal datore di lavoro, ma dai colleghi della vittima, quando il datore stesso sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo o delle condizioni ambientali che lo hanno reso possibile.
La sentenza della Corte affronta anche la questione, strettamente processuale, relativa all'applicabilità ai licenziamenti intimati per superamento del periodo di comporto del termine di impugnazione di 60 imposto dalla legge (art. 6 l. n. 604/1966, come modificato dall'art. 32 della l. n. 183/2010, il c.d. collegato lavoro) a pena di decadenza. Secondo la sentenza, l'applicabilità di tale termine anche ai licenziamenti intimati per superamento del comporto deve ritenersi pacifica a seguito dell'approvazione del collegato lavoro, in quanto l'art. 32 comma 2 della legge n. 183/2010 ha esteso espressamente il regime di impugnazione dei licenziamenti “ad ogni ipotesi di invalidità del licenziamento”, includendo quindi anche la fattispecie in esame.