Contenzioso

Il dipendente deve provare che il licenziamento è ritorsivo

di Matteo Prioschi

Spetta al dipendente dimostrare che il licenziamento deciso a suo carico dal datore di lavoro ha natura ritorsiva e discriminatoria. Lo ricorda la Corte di cassazione con la sentenza 20742/2018 depositata ieri che ha ribaltato i giudizi espressi dal tribunale e dalla Corte d'appello.

Un dirigente è stato licenziato sulla base di tre contestazioni: costo spropositato e ingiustificato dell'auto aziendale; gestione insoddisfacente degli appalti; discrasie tra report gestionali. Nella fase sommaria il tribunale ha ritenuto ingiustificato il licenziamento ma non avendo individuato il motivo ritorsivo e persecutorio ha stabilito un risarcimento economico nei confronti del lavoratore. Nel giudizio di opposizione, invece, il tribunale ha ritenuto il provvedimento ritorsivo e ha condannato il datore di lavoro a reintegrare il dipendente. Decisione poi confermata dalla Corte d'appello.

La Corte di cassazione, però, accogliendo le censure sollevate dall'azienda, ha ricordato che «l'onere di dimostrare l'intento discriminatorio, idoneo a configurare la nullità del recesso…è posto a carico del lavoratore». Invece, ripercorrendo l'iter argomentativo della Corte d'appello, «non è dato evincere alcun accertamento, né in merito all'effettiva causale del recesso, né in merito all'avvenuto raggiungimento in giudizio della prova della ritorsione – quale motivo unico e determinate – offerta dal dirigente licenziato».

Inoltre la Suprema corte richiama un orientamento di legittimità in base al quale se il lavoratore ricorre in giudizio sostenendo il motivo discriminatorio del licenziamento «l'eventuale carenza di giusta causa, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore e non già compreso motivo di illegittimità del recesso come tale non rilevabile d'ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda».

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