Promessa di conservare il posto non valida se fatta valere dopo il licenziamento
La promessa unilaterale di garantire ad un dipendente il posto di lavoro e la retribuzione in caso di variazione della proprietà aziendale è priva di effetto se il rapporto sottostante alla promessa è il rapporto di lavoro e la promessa viene fatta valere, per l'intervenuto cambiamento di proprietà, dopo che detto rapporto di lavoro sia già cessato.
È quanto ha stabilito la Corte di appello di Milano (presidente relatore Maria Rosaria Cuomo) con la sentenza n° 1656/2017, confermando, con diversi motivi, la decisione del Tribunale di Milano.
Il caso è quello di un dipendente che, a seguito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, chiedeva alla società datrice di lavoro il pagamento di una determinata somma, in ragione della promessa rilasciata anni prima dall'allora socio di maggioranza ed amministratore unico. L'amministratore si era impegnato a garantire il posto di lavoro e la relativa retribuzione fino al raggiungimento dell'età pensionabile, in caso di mutamenti proprietari in azienda. In secondo luogo, aveva impegnato la società datrice a corrispondere al dipendente lo stipendio ed a versare i contributi a suo favore per il periodo intercorrente tra un eventuale cambiamento dell'assetto proprietario e la maturazione del diritto alla pensione da parte del lavoratore.
Quanto alla prima promessa il Tribunale, pur accertato che alla morte dell'amministratore (autore della promessa) si era effettivamente verificato un cambiamento nella titolarità dell'azienda, riteneva che la cessazione del rapporto di lavoro (nel frattempo intervenuta e ritenuta valida in separata causa) escludesse l'operatività della suddetta garanzia. Quanto alla seconda promessa il Tribunale riteneva che fosse nulla per violazione della disciplina dei poteri dell'organo amministrativo.
La Corte di appello, nel proporre motivi diversi per le stesse conclusioni, ha affrontato il tema, non molto frequente nell'ambito del diritto del lavoro, delle promesse unilaterali e in ciò risiede la maggior ragione di interesse per la bella sentenza. Secondo la Corte, infatti, entrambi gli impegni assunti dall'amministratore, unitariamente considerati, rientrano nel novero delle promesse unilaterali ex articolo 1987 del Codice civile. Nel nostro ordinamento, salvo la legge lo preveda espressamente, le promesse unilaterali non sono fonte autonoma di obbligazione, ma comportano una presunzione iuris tantum dell'esistenza del rapporto sottostante, addossando al promittente l'onere di provare l'eventuale inesistenza, invalidità o estinzione della obbligazione sottostante. Infatti, rifacendosi alla giurisprudenza elaborata in contesti diversi dal rapporto di lavoro (Cassazione Sez. 3, n. 21098/213, n. 13506/14), il collegio ha evidenziato come la promessa unilaterale perda ogni effetto vincolante, ove il rapporto sottostante non sia sorto, o sia invalido, o sia estinto.
Nel caso esaminato, considerato che nel momento in cui il dipendente faceva valere la promessa il rapporto di lavoro sottostante era già cessato, la Corte di appello ha ritenuto che fosse venuto meno ogni effetto vincolante dell'intera promessa.
Con la sentenza la Corte ha rammentato a tutti gli operatori l'importanza di tener presente la particolare disciplina delle promesse unilaterali, distinguendone gli effetti da quelli, ben diversi, delle obbligazioni contrattuali. Supponendo ad esempio che un datore e un dipendente vogliano concludere un patto di stabilità, o incentivante, ben faranno a redigere un contratto, piuttosto che lasciare che questi intenti vengano espressi solo con una promessa unilaterale del datore.
La sentenza n. 1657/17 della Corte d'appello di Milano