Ritornare allo spirito della legge Biagi
Nessuna velleità di competere con le agenzie private per il lavoro. Ancor meno la pretesa di rilanciare le sorti di un collocamento pubblico che, nel nostro Paese, mai ha operato a regime. Piuttosto la richiesta ai docenti di un impegno concreto per l’occupabilità dei propri studenti realizzando una funzione ritenuta insostituibile: quella di facilitare il loro passaggio dalla università al mondo del lavoro.
È in questa prospettiva che si deve valutare la previsione della legge Biagi, passata in secondo piano nella contesa politico-sindacale sulla flessibilità del lavoro, di affidare al sistema universitario (e a quello scolastico più in generale) un ruolo chiave nella costruzione dei presupposti di un vero e proprio sistema dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.
Trascorsi quindici anni è certamente doveroso un bilancio di questo non secondario capitolo della legge Biagi. L’analisi non può tuttavia limitarsi a una fredda rendicontazione dei modesti avviamenti al lavoro promossi dalle nostre università. Il cuore della riforma non era infatti la nascita di sportelli di collocamento dedicati agli studenti da utilizzare una volta portato a termine il percorso universitario. Piuttosto, come bene documenta il Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001, l’idea era quella di introdurre una leva strategica per ripensare l’intera offerta formativa degli atenei responsabilizzando altresì i singoli docenti nell’orientamento dei giovani e nella valorizzazione dei loro talenti attraverso forme innovative di didattica, come il metodo dell’alternanza e l’apprendistato universitario. Sullo sfondo l’idea di una formazione non più nozionistica e anche l’obiettivo di contribuire a superare il disallineamento tra le competenze richieste dalle imprese e quanto insegnato nelle aule delle nostre università. Insomma: una risposta di sistema alle pesanti criticità evidenziate dalle istituzioni comunitarie che, nei rapporti congiunti sulla occupazione del Consiglio e della Commissione dell’epoca, erano inequivocabili nell’accusare l’università italiana di progettare percorsi formativi autoreferenziali perché «pensati non in funzione delle esigenze delle imprese e del territorio ma della sola capacità formativa dei singoli docenti».
Il ritardo, anche culturale, nella attuazione della legge Biagi è tutto qui. Pochi passi concreti sono stati mossi in questa direzione. Là dove invece risulta incomprensibile, e anche di dubbia legittimità, la posizione dell’Anpal che ha di fatto bloccato la libera circolazione dei curricula degli studenti universitari pur a fronte di una chiara previsione normativa della stessa legge Biagi quale condizione per aprire uffici di placement nelle sedi universitarie. Poco attendibile, in ogni caso, è l’accusa di scarsa efficienza rivolta agli operatori degli sportelli universitari, guidati da persone generose che, non di rado, si trovano a lottare contro i mulini a vento delle logiche accademiche. E questo perché ancora non è cambiata, almeno nella generalità dei casi, l’impostazione della offerta formativa e prima ancora la stessa metodologia della didattica come confermato dal mancato decollo dell’apprendistato di alta formazione che era l’altro fiore all’occhiello della legge Biagi in relazione ai percorsi per l’occupabilità dei giovani.
Rispetto alla visione della legge Biagi una precisazione resta ancora da fare. Nell’impianto della legge 30, l’occupabilità non è mai stata intesa come formazione piegata alle esigenze contingenti del mercato del lavoro e neppure una formazione per un preciso mestiere. Difficile, del resto, che un giovane di vent’anni sappia con certezza cosa vorrà fare da grande. Così inteso quello di occupabilità è un concetto vecchio e forse anche sbagliato, per la nuova economia almeno, anche perché, già ora e ancor più in futuro, si cambieranno almeno dai cinque ai dieci lavori nell’arco di una vita.
Occupabilità è, semmai, un percorso di crescita e sviluppo integrale della persona che porta i giovani a essere padroni del loro destino in quanto attrezzati per le sfide del futuro anche perché non formati ottusamente su nozioni e tanto meno su un singolo mestiere che, magari, sarà già scomparso non appena si affacceranno nel mercato del lavoro. Giovani occupabili perché preparati dai loro docenti a individuare e risolvere i problemi che via via incontreranno nella vita professionale forti di una consapevolezza di chi sono e di cosa vogliono, delle loro potenzialità e dei loro talenti così come dei lori limiti e delle lacune su cui migliorarsi. Un compito non facile che impone un rinnovato impegno delle università già nella fase di formazione degli studenti e non solo nel punto finale del loro percorso attraverso una azione statica e a quel punto inevitabilmente poco efficace di mero collocamento.