Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

La tempestività della contestazione disciplinare/1
La tempestività della contestazione disciplinare/2
Rilevanza del comportamento extra-lavorativo ai fini del licenziamento per giusta causa
Licenziamento disciplinare e reintegrazione
Criteri distintivi del lavoro autonomo e di quello subordinato


La tempestività della contestazione disciplinare/1

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2017, n. 12712

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. A. s.p.a.; Contr. A.P.;

Contestazione disciplinare - Tempestività - Dies a quo - Conoscenza da parte del datore di lavoro delle condotte rilevanti - Significativo intervallo temporale tra fatto e contestazione - Ammissibilità - Valutazione in senso relativo

Il tempo da computarsi per stabilire la tempestività o meno della contestazione deve essere considerato in relazione al momento di conoscenza dell’accadimento disciplinarmente rilevante da parte datoriale, e non già con riferimento al momento storico del fatto rispetto al suo verificarsi, tenuto conto inoltre di tutte le circostanze del caso concreto, sicché anche l’obbligo di contestazione immediata non può ritenersi sussistente per il solo fatto che la notizia della condotta disciplinarmente rilevante giunga a conoscenza di parte datoriale, occorrendo altresì uno spatium deliberandi in proposito al fine di delibarne un minimo di fondatezza con il compimento anche delle pur necessarie indagini volte alla sua verifica

Nota

La vicenda concerne un licenziamento disciplinare intimato in seguito alla contestazione di una serie di irregolarità nella liquidazione di sinistri assicurativi, dichiarato legittimo dal Tribunale e la cui decisione è stata poi riformata dalla Corte d’Appello in ragione dell’asserita violazione del principio dell’immediatezza della contestazione. In particolare, la contestazione disciplinare era stata inviata nel novembre 2011 e si riferiva ad una serie di comportamenti verificatesi tra il 2007 ed il 2009. Sul punto la società aveva chiarito di essere venuta a conoscenza delle irregolarità solo nell’ottobre 2011, ma, secondo i giudici del gravame, l’azienda non aveva dato prova di ciò ed, anzi, alcune dichiarazioni rese dal legale rappresentante in sede di interrogatorio libero provavano il contrario.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, tutti accolti dalla Suprema Corte, con cassazione della sentenza e rinvio ai giudici di Appello di Reggio Calabria.

Nell’enucleare i principi cui dovranno attenersi i giudici del rinvio la Cassazione ribadisce una serie di note affermazioni. In particolare la massima riprende un precedente in termini (Cass. 25 gennaio 2016, n. 1248) nell’ambito del quale la Corte aveva precisato che il principio dell’immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tenere conto della specifica natura dell’illecito disciplinare e del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale. Sulla scorta di tale considerazione la Suprema Corte ritiene errata la valutazione condotta dai giudici del gravame che hanno considerato meccanicamente l’ampiezza dell’intervallo temporale tra il momento dei fatti e quello della contestazione, senza considerare quali concrete circostanze abbiano effettivamente pregiudicato i diritti di difesa dell’incolpato, desumendo tale danno solo dalla distanza di tempo tra i fatti e l’addebito. Secondo la Corte tale modus procedendi, è errato dato che, per orientamento ormai consolidato, il requisito dell’immediatezza è compatibile con il decorso di un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti convergenti in una unica condotta ed implichi, pertanto, una valutazione globale ed unitaria; in tal caso l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale dai fatti precedenti (Cass. 27 marzo 2008, n. 7983; Cass. 17 settembre 2008, n. 282; Cass. 22 ottobre 2007, n. 22066; Cass. 6 settembre 2007, n. 18711). La Cassazione ricorda, inoltre, che il requisito dell’immediatezza della contestazione è posto a tutela del lavoratore ed inteso a consentirgli un’adeguata difesa, onde il ritardo può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che la ponderata e responsabile valutazione dei fatti da parte del datore può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 2007, n. 1101; Cass. 11 gennaio 2006, n. 241). In chiusura, a conferma della posizione assunta, la Suprema Corte precisa infine che il datore di lavoro ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile dovere, non previsto dalla legge, né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, bensì con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza (Cass. 17 maggio 2016, n. 10069).

 

La tempestività della contestazione disciplinare/2

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2017, n. 12714

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.F.; Controric. M.A. S.p.A.;

Licenziamento per giusta causa -  Contestazione disciplinare -  Richiesta di audizione orale -  Mancata audizione -  Imputabilità alla lavoratrice -  Legittimità

Licenziamento per giusta causa -  Previsione di un termine contrattuale per l’irrogazione del provvedimento -  Violazione -  Imputabilità alla lavoratrice -  Tardività -  Non sussiste

La decorrenza del termine contrattuale eventualmente previsto per l’irrogazione di una sanzione disciplinare deve ritenersi sospesa per tutto il periodo in cui la mancata audizione sia dipesa da un fatto riferibile al lavoratore, il quale dopo aver chiesto l’audizione abbia addotto l’impedimento della malattia, frapponendo un impedimento all’adozione del provvedimento entro il termine contrattualmente previsto, impedimento che non può ricadere sul datore di lavoro. Eccepire in tal caso che il provvedimento irrogato sarebbe tardivo perché adottato oltre il termine contrattuale, viola certamente il principio di buona fede e correttezza, tanto da far ritenere verosimilmente dilatorie le richieste di rinvio.

Nota

La Corte di Appello di Napoli ha riformato la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento in tronco intimato nei confronti della lavoratrice, ed aveva ordinato la reintegrazione della medesima nel posto di lavoro, accogliendo le deduzioni della ricorrente secondo cui doveva ritenersi violato, nella specie, l’art. 7 della legge n. 300 del 1970, in quanto la società aveva adottato la sanzione espulsiva senza sentire la lavoratrice alla presenza di un RSA, nonostante quest’ultima ne avesse fatto richiesta.

La Corte territoriale ha rilevato che, a seguito della richiesta della dipendente di essere ascoltata di persona, la società l’aveva convocata per ben tre volte (rispettivamente per le date del 22.9.2008, del 2.10.2008 e del 9.10.2009), ma che la lavoratrice non si era presentata a nessuno di tali incontri inviando tre certificati medici con prognosi di alcuni giorni, incluso quello stabilito per l’incontro.

La Corte territoriale ha rilevato, altresì, che diversamente da quanto sostenuto dal primo giudice, la dipendente non aveva giustificato l’assenza al colloquio fissato per il 9.10.2009, non essendovi prova della ricezione da parte della società del certificato medico che la lavoratrice deduceva di aver inviato.

Pertanto, i giudici di appello, ritenendo che la mancata audizione della lavoratrice fosse imputabile ad una condotta consapevolmente dilatoria e strumentale, posta in essere dalla medesima, diretta a prolungare indefinitamente la procedura, hanno dichiarato la legittimità del licenziamento impugnato, escludendo peraltro la lamentata violazione dell’art. 28 del CCNL di settore che prescrive, per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari conservative, l’adozione della sanzione nel termine di trenta giorni dalla contestazione degli addebiti. Secondo quanto sostenuto dalla Corte la condotta dilatoria tenuta dalla lavoratrice era evincibile, tra l’altro, dal mancato invio di difese scritte, una volta ricevuta dalla datrice di lavoro la documentazione relativa alle pratiche dei sinistri oggetto di contestazione. Nel merito, infine, la Corte territoriale riteneva che dalle testimonianze raccolte nel corso dell’istruttoria fosse emersa la prova della sussistenza degli addebiti contestati alla dipendente.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice affidato a quattro motivi.

In particolare, la ricorrente lamentava la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, nonché dell’art. 28 del CCNL di settore, sostenendo che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere dilatoria la condotta posta in essere dalla lavoratrice nonché nel ritenere che quest’ultima fosse stata messa nella condizione di difendersi, avendo ricevuto la documentazione relativa alle pratiche dei sinistri oggetto di contestazione, rispetto alla quale avrebbe potuto difendersi per iscritto.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

La Suprema Corte, pur ribadendo l’esistenza dell’obbligo del datore di lavoro di consentire le difese orali quando il lavoratore ne faccia richiesta, ha tuttavia rilevato che l’obbligo di accogliere la richiesta sussiste solo ove la stessa risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (Cass. 31 marzo 2011, n. 7493), essendo peraltro rimesso al giudice di merito - la cui valutazione è insindacabile se congruamente motivata -, l’accertamento che le modalità di convocazione del lavoratore non siano contrarie a buona fede (Cass. 7 maggio 2015, n. 9223; Cass. 16 ottobre 2013, n. 23528).

Con specifico riferimento al caso in oggetto, la Suprema Corte ha rilevato che correttamente la Corte territoriale aveva posto in evidenza la condotta dilatoria e non sorretta da buona fede della lavoratrice, la quale peraltro era stata messa in condizione di poter inviare difese scritte, avendo ricevuto copia della documentazione in possesso della società.

La Suprema Corte ha, infine, rilevato che quand’anche si fosse ritenuta applicabile la disposizione contrattuale di cui all’art. 28 del CCNL di settore, prevista per le sanzioni conservative, neppure in tal caso il provvedimento impugnato si sarebbe potuto considerare tardivo, perché adottato oltre il termine contrattuale. Ed infatti, la decorrenza del termine contrattuale non potrebbe non ritenersi sospesa per tutto il periodo in cui la mancata audizione sia dipesa da un fatto riferibile al lavoratore, il quale dopo aver chiesto l’audizione abbia addotto l’impedimento della malattia, frapponendo un impedimento all’adozione del provvedimento entro il termine contrattualmente previsto, impedimento che non può ricadere sul datore di lavoro (Cass. 11 giugno 2009, n. 13596). 

 

Rilevanza del comportamento extra-lavorativo ai fini del licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 25 maggio 2017, n. 13197

Pres. Macioce; Rel. Blasutto; P.M. Ghersi; Ric. N.R.; Controric. E.D. S.p.A.;

Licenziamento per giusta causa -  Comportamento extra-lavorativo -  Rilevanza -  Condizioni -  Contrarietà alle norme dell’etica e del vivere comune -  Legittimità -  Contrasto con codice disciplinare -  Irrilevanza.

In tema di licenziamento per giusta causa, l'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extra-lavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro, è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività svolte, perché di gravità tale, in quanto contrario alle norme dell'etica e del vivere comune, da connotare la figura morale del lavoratore.

Nota

Un operario di un’azienda fornitrice di energia elettrica, addetto agli interventi di manutenzione e ripristino degli impianti elettrici sul territorio, veniva licenziato per giusta causa in quanto, presso la piazzola di sua proprietà, adibita a parcheggio della propria abitazione, era stato riscontrato un allaccio abusivo alla rete elettrica, mediante un filo "volante" che collegava la piazzola alla vicina cabina di trasformazione.

Sia il Tribunale di Velletri, sia la Corte d’Appello di Roma, rigettavano la domanda del dipendente di impugnazione del licenziamento disciplinare.

La Corte territoriale riteneva insussistente un difetto di prova della responsabilità dei fatti contestati, risultando inverosimile che il ricorrente non fosse a conoscenza dell’allacciamento abusivo, ovvero che ignorasse -  in ragione delle specifiche conoscenze tecniche connesse alla propria qualifica professionale -  che con tali modalità si potesse indebitamente fruire dell’energia elettrica. Inoltre, i giudici del merito, nell’affermare la sussistenza di una giusta causa di recesso, sottolineavano che al ricorrente era stato contestato anche il comportamento omissivo di aver tollerato la situazione di pericolo scaturente dal suddetto allaccio abusivo.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione avverso la sentenza di secondo grado; l’azienda resisteva con controricorso.

Con il primo motivo di ricorso, il dipendente lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2727 c.c. nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto dimostrata la condotta commissiva (dell’appropriazione illecita dell’energia elettrica) muovendo esclusivamente dal rilievo dell’esistenza, presso la piazzola di sua proprietà, di un allacciamento abusivo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, confermando che

per aversi una presunzione giuridicamente valida non occorre che i fatti sui quali essa si fonda siano tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti certi, essendo al contrario sufficiente che dai fatti noti

sia univocamente deducibile il fatto ignoto, in virtù della regola dell’inferenza probabilistica, attraverso un procedimento logico basato sull’id quod plerumque accidit, sicché sia consentito desumere il fatto da dimostrare come conseguenza logica possibile del fatto noto.

Tra gli altri motivi di ricorso, il lavoratore lamentava violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità della sanzione disciplinare, in relazione all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, laddove il giudice di secondo grado aveva omesso di esaminare le previsioni del contratto collettivo.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondato anche tale motivo, perché del tutto avulso dalla ratio decidendi della pronuncia impugnata. Il fatto contestato -  pur presentando evidenti profili d’interferenza con la qualifica lavorativa del ricorrente, tale peraltro da rivelare una particolare intensità dell’elemento intenzionale, in quanto il ricorrente svolgeva mansioni di manutenzione e ripristino di apparecchiature identiche a quello sul quale era stato effettuato l’allaccio abusivo presso il proprio parcheggio -  era stato posto in essere in sede extra-lavorativa, integrando un comportamento contrastante con le norme della comune etica e con i doveri del dipendente, con la conseguenza che non rilevava lo specifico esame della normativa contrattuale.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio di diritto (recentemente affermato in Cass. 24023/2016) secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, l'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extra-lavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro, è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere comune, da connotare la figura morale del lavoratore.

Pertanto, la previsione del contratto collettivo aziendale che punisce (con sanzione conservativa) l’omessa segnalazione di un allaccio abusivo, che determini una situazione oggettiva di pericolo, è stato considerata irrilevante proprio in quanto riferibile ad un inadempimento contrattuale di ordine colposo, cioè commesso dal dipendente nell’esercizio delle sue funzioni, mentre nel caso di specie il comportamento addebitato era extra-lavorativo ed era quindi sufficiente che lo stesso fosse in contrasto le norme dell'etica e del vivere comune.

 

Licenziamento disciplinare e reintegrazione

Cass. Sez. Lav. 31 maggio 2017, n. 13799

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Fresa; Ric. L. S.r.l..; Controric. B.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Insussistenza del fatto contestato - Art. 18 st.lav. modificato dall'art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012 - Nozione - Fatto privo del carattere dell'illiceità - Conseguenze

L'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 st.lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.

Nota

Il Tribunale di Cosenza annullava il licenziamento per giusta causa impugnato con ricorso ai sensi del rito Fornero e condannava la società alla reintegrazione del dipendente.

L’ordinanza veniva riformata in sede di opposizione. Infatti, per il Tribunale il licenziamento era legittimo poiché le frasi postate dal dipendente su Facebook rappresentavano una "gratuita ed esorbitante denigrazione" ed erano caratterizzate dalla "precisa intenzione di ledere, con l'attribuzione di un fatto oggettivamente diffamatorio, la reputazione del proprio datore di lavoro".

Avverso la pronuncia del Tribunale proponeva reclamo il dipendente; la Corte di Appello riformava la sentenza dichiarando l’illegittimità del licenziamento, essendo il fatto contestato non illecito, e reintegrava il lavoratore.

Contro la sentenza della corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione la società contestando che la sentenza impugnata non aveva osservato il principio secondo cui la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42, distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione il motivo è infondato posto che l'insussistenza del fatto contestato include anche l'ipotesi del fatto sussistente ma lecito, per cui (anche) in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.

Chiarisce poi la Corte che l'assenza d’illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotta all'ipotesi dell'insussistenza del fatto contestato che prevede la reintegra nel posto di lavoro, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e sussistente, non consente l'applicazione della tutela reintegratoria implicando un giudizio di proporzionalità.

Alla luce delle considerazioni di cui sopra, nel caso in esame per la Cassazione trova applicazione la tutela reintegratoria essendo stata correttamente accertata dalla Corte di Appello l’insussistenza dell'antigiuridicità del comportamento, (confermata anche dal decreto di archiviazione disposto dal g.i.p.).

 

Criteri distintivi del lavoro autonomo e di quello subordinato

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2017, n. 12900

Pres. Nobile; Rel. Spena; P.M. Ceroni; Ric. R.A.I. S.p.A.; Controric. C.A.;

Lavoro - Subordinazione - Criteri distintivi dal lavoro autonomo -  Prestazione di contenuto intellettuale - Utilizzazione di criteri sussidiari - Ammissibilità - Fattispecie

Ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento. L'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento alle direttive da questo impartite circa le modalità di esecuzione dell'attività lavorativa. Tuttavia, nel caso in cui la prestazione abbia un contenuto intellettuale e creativo, il criterio della subordinazione può non risultare significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, legittimando il ricorso a criteri distintivi sussidiari, come l'osservanza di un orario, l'assenza di rischio economico, la forma di retribuzione, la sussistenza o meno di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, la continuità e la durata del rapporto.

Nota

Il caso di specie riguarda l’accertamento della natura subordinata dell’attività svolta da un collaboratore autonomo (come giornalista) in forza di vari contratti succedutisi nel tempo.

La domanda del lavoratore veniva accolta sia in primo che in secondo grado. In particolare, la Corte d’Appello di Roma accertava che il lavoratore era inserito organicamente nella struttura aziendale, era legato alle indicazioni del proprio superiore in merito all’attività da svolgere, era soggetto ad un regime orario ed all’obbligo di concordare le proprie assenze.

Tali dati deponevano senza dubbio, secondo la Corte d’Appello, nel senso della natura subordinata del rapporto di lavoro.

Ricorreva per Cassazione la società, deducendo che il Giudice d’Appello avrebbe erroneamente applicato l’art. 2094 c.c., pur essendo mancata una compiuta indagine in merito alle modalità di esecuzione della prestazione ed alla sottoposizione del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che, per giurisprudenza costante, ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo e che l'elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. n. 20367/2014).

L’esistenza del vincolo di subordinazione va però accertata con riguardo alle specificità dell’incarico conferito e, nel caso in cui la prestazione abbia un contenuto intellettuale e creativo, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, legittimando il ricorso a criteri distintivi sussidiari quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale, la sussistenza o meno di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

Ebbene, a detta della Corte, nel caso di specie la Corte d’Appello ha correttamente applicato i criteri di qualificazione del rapporto di lavoro sopra richiamati; le circostanze di fatto accertate dal giudice di merito sono state correttamente reputate idonee a fondare la qualificazione del rapporto in termini di lavoro subordinato e, in quanto sorrette da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, si tratta di accertamento incensurabile in sede di legittimità.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

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