Rassegna della Cassazione
Procedura di licenziamento collettivo
Procedura di licenziamento collettivo e cessazione di appalto di servizi con subentro di nuovo appaltatore
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e gruppo di imprese
Licenziamento per giusta causa
Interpretazione del contratto e patto di prova
Procedura di licenziamento collettivo
Cass. Sez. Lav. 14 dicembre 2016, n. 25737
Pres. Amoroso; Rel. Amendola; Ric. A.S. S.p.A.; Controric. I.G. + 11
Lavoro subordinato - Licenziamento collettivo - Cessazione dell' attività aziendale - Comunicazione ex art. 4 comma 9 L.223/1991 - Necessità - Licenziamenti intimati in mancanza - Illegittimità
Con riferimento a licenziamento intimato all'esito della procedura di mobilità regolata dalla L. n. 223 del 1991, tale procedura trova applicazione - per espressa previsione dell'art. 24, co. 1, della stessa legge - anche ai licenziamenti conseguenti alla chiusura dell'insediamento produttivo, salvo che, per effetto di tale estensione, la tutela opera nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell'attività aziendale e cioè al fine di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima. Così, ad esempio, il datore di lavoro non è obbligato a specificare, nella comunicazione di cui all'art. 4, l. 223/1991 cit., i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali, atteso che tale informazione si giustifica in relazione ad un possibile reimpiego dei lavoratori in alternativa al ricorso alla mobilità, ovvero nella prospettiva di una mera riduzione di personale, ipotesi che sono da escludersi nel caso di cessazione dell'attività aziendale.
Nota
La decisione in esame ha ad oggetto la legittimità dei licenziamenti intimati all'esito di una procedura di licenziamento collettivo per cessazione dell'intera attività aziendale, nel caso in cui ai licenziamenti non sia seguita la comunicazione ex art. 4 comma 9 della L. 223/1991.
I lavoratori interessati avevano impugnato presso il Tribunale di Palermo il licenziamento loro intimato, a seguito della procedura di cui sopra, per il mancato assolvimento degli obblighi d'informazione nei confronti delle organizzazioni sindacali competenti, prescritti dall'art. 4 comma 9 della suddetta Legge. L'impugnazione veniva accolta dal Tribunale di Palermo e la decisione veniva confermata successivamente dalla Corte d'Appello adita in considerazione del fatto che, a giudizio delle riferite Corti territoriali, la circostanza per cui la procedura di licenziamento collettivo fosse dovuta alla cessazione dell'attività della società datrice di lavoro non valeva ad escludere la necessità per quest'ultima di assolvere agli obblighi suddetti.
Contro tale decisione ricorreva in Cassazione la società datrice di lavoro lamentando, tra l'altro, violazione dell'art. 4 comma 9 della L. 223/1991 nonché vizio di motivazione per non avere la Corte di merito tenuto conto che la prescritta comunicazione alle organizzazione sindacali fosse inutile nel caso di specie.
La Corte di Cassazione ha dichiarato tale doglianza infondata e respinto l'intero ricorso. Secondo la Suprema Corte, infatti, la procedura in esame trova integrale applicazione anche in caso di licenziamenti dovuti alla cessazione dell'attività.
Pertanto l'omissione della comunicazione ex art. 4 comma 9 comporta l'illegittimità dei licenziamenti in quanto la disposizione non si limita a prevedere l' indicazione delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta, indicazione che in caso di cessazione dell'attività potrebbe essere ritenuta superflua, ma si estende anche all'elenco dei lavoratori licenziati e all'indicazione dei relativi dati. Secondo la Suprema Corte, infatti, "solo attraverso la comunicazione di tale elenco alle organizzazioni sindacali queste ultime sarebbero state in grado di verificare e controllare l'effettivo rispetto da parte della società della corrispondenza all'intenzione della comunicazione iniziale circa il coinvolgimento dell'intero organico aziendale nella chiusura dell'insediamento produttivo".
Procedura di licenziamento collettivo e cessazione di appalto di servizi con subentro di nuovo appaltatore
Cass. Sez. Lav. 22 novembre 2016, n. 23732
Pres.Di Cerbo; Rel.Ghinoy; P.M. Sanlorenzo; Ric. O.P.; Controric. e ric. successivo T.S.S.C. a R.L.
Cessazione dell'appalto di servizi - Assunzione dei lavoratori licenziati da parte dell'impresa subentrante - Esclusione dall'applicazione della procedura dei licenziamenti collettivi - Legittimità - Condizioni - Parità di condizioni economiche e normative - Stipula di accordi collettivi di armonizzazione - Valutazione di tali condizioni da parte del giudice del merito quali presupposti per la legittimità dei licenziamenti - Necessità
L'esonero dall'applicazione della procedura dei licenziamenti collettivi ex artt. 4 e 5 L. n. 223/1991, prevista dall'art. 7, D.L. n. 248/2007, per l'ipotesi di cessazione di appalto di servizi con subentro di nuovo appaltatore ed acquisizione del personale già impiegato nell'appalto, opera a condizione che i lavoratori siano riassunti dall'impresa subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, oppure che siano riassunti a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Pertanto, il giudice del merito non può esimersi dal valutare la sussistenza delle predette condizioni, trattandosi di elementi che concorrono ad individuare l'ambito dell'esonero dal rispetto della procedura collettiva e che rientrano, dunque, tra i presupposti per la legittimità dei licenziamenti irrogati.
Cessazione dell'appalto di servizi - Assunzione dei lavoratori licenziati da parte dell'impresa subentrante - Effetto - Rinuncia al diritto di impugnazione del licenziamento intimato dal precedente datore di lavoro - Esclusione
La scelta effettuata dal lavoratore per la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con la società subentrante nell'appalto di servizi non implica, di per sé, rinuncia all'impugnazione dell'atto di recesso, dovendosi escludere che si possa desumere la rinuncia del lavoratore ad impugnare il licenziamento o l'acquiescenza al medesimo dal reperimento di una nuova occupazione, temporanea o definitiva, non rivelandosi, in tale scelta, in maniera univoca, ancorché implicita, la sicura intenzione del lavoratore di accettare l'atto risolutivo.
Nota
La fattispecie al vaglio della Suprema Corte attiene al caso di una lavoratrice, licenziata dalla datrice di lavoro per giustificato motivo oggettivo, a seguito di cessazione dell'appalto di pulizia, e successivamente assunta dalla ditta appaltatrice subentrata nel medesimo appalto. La lavoratrice impugnava il licenziamento, avendo l'azienda omesso di adottare la procedura prevista per i licenziamenti collettivi di cui agli artt. 4 e 5 L. n. 223/1991 e, pertanto, chiedeva la reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, c. 4, Stat. Lav. (così come modificato dalla L. n. 92/2012).
La Corte d'Appello, in parziale accoglimento del reclamo proposto dalla lavoratrice ex art. 1, c. 58, L. n. 92/2012, dichiarava inefficace il licenziamento, ritenendo sussistente il vizio procedurale della mancata comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro ai fini dell'esperimento del tentativo di conciliazione ai sensi dell'art. 7, L. n. 604/1966. Applicava, quindi, la tutela risarcitoria ex art. 18, c. 6, Stat. Lav., e non la richiesta tutela reintegratoria, in considerazione dell'esonero, previsto dall'art. 7, D.L. n. 248/2007 per l'ipotesi di subentro nell'appalto di servizi, dall'obbligo di attivare la procedura ex L. n. 223/1991.
Avverso la predetta sentenza, la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 7, c. 4-bis del D.L. n. 248/2007, atteso che tale norma prevede, quale condizione necessaria per l'esonero, l'applicabilità da parte dell'impresa subentrante delle medesime condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, ovvero la stipula di accordi collettivi di armonizzazione con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Proponeva, altresì, ricorso la società, deducendo omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, atteso che la lavoratrice, pochi giorni dopo l'intimato licenziamento, aveva firmato il contratto di lavoro con l'impresa subentrante nell'appalto senza alcuna riserva e continuando a svolgere le stesse mansioni con la nuova datrice, così formalmente esprimendo la propria volontà di ritenere cessato il rapporto di lavoro con l'originaria ditta appaltatrice.
La Corte di legittimità, dopo aver riunito i ricorsi, accoglieva il ricorso proposto dalla lavoratrice, ritenendo l'interpretazione dell'art. 7. C. 4-bis, D.L. n. 248/2007 dalla stessa fornita corretta e coerente con le dichiarate finalità della norma di "favorire la piena occupazione e di garantire l'invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori"; finalità che concorrono ad individuare l'ambito dell'esonero dal rispetto della procedura prevista per i licenziamenti collettivi.
Ebbene, la Suprema Corte osservava come la Corte di merito - nel ritenere che le condizioni contrattuali applicate in concreto dalla società subentrante (tra le quali, in particolare, il fatto che il contratto di lavoro fosse stato stipulato a tempo parziale anziché a tempo pieno come il precedente) non dovessero essere valutate ai fini dell'operatività dell'esonero di cui all'art. 7, c. 4-bis del D.L. n. 248/2007 - abbia violato tale norma, dovendo piuttosto le predette condizioni rientrare nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la legittimità del licenziamento.
La Suprema Corte, poi, rigettava il ricorso della società, ritenendo di dover dare continuità al principio, già affermato da Cass. 29/05/2007, n. 12613, secondo cui la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con la società subentrante nell'appalto di servizi non implica, di per sé, rinuncia all'impugnazione dell'atto di recesso, dovendosi escludere che si possa desumere la rinuncia del lavoratore ad impugnare il licenziamento o l'acquiescenza al medesimo dal reperimento di una nuova occupazione.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e gruppo di imprese
Cass. Sez. Lav. 20 dicembre 2016, n. 26346
Pres. Napoletano; Rel. Blasutto; P.M. Mastroberardino; Ric. C.A. e altri; Contr. B.R.
Gruppo di imprese - Requisiti - Unicità della struttura organizzativa e produttiva - Integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese - Coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario - Interscambiabilità della prestazione lavorativa - Accertamento in concreto - Necessità
Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti a un rapporto di lavoro formalmente intercorso tra un lavoratore e una di esse, si debbano estendere anche all'altra. Pertanto, è necessario accertare la sussistenza di ulteriori requisiti, quali: a) l'unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo; d) l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese.
Nota
La Corte di appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Varese, dichiarava la illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice, disponendone la reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna in solido delle società convenute al risarcimento dei danni.
A fondamento della propria decisione, la Corte di merito rilevava che, sulla base delle risultanze istruttorie, era emersa l'esistenza di un gruppo di imprese con unico centro di imputazione dei rapporti giuridici. Ai titolari della società, due coniugi, che costituivano un unico centro direttivo, facevano capo le attività delle singole imprese, le quali si avvalevano in modo fungibile del personale addetto a ciascuna di esse tanto che tutte le società avevano la medesima sede. Quanto alla legittimità del recesso intimato, secondo la Corte di appello, non era stata fornita adeguata prova in merito alla circostanza, pure allegata, che le mansioni assegnate alla lavoratrice licenziata fossero state poi ripartite tra altri addetti.
Avverso tale sentenza le società ricorrono in cassazione denunciando la violazione dell'art. 2359 c.c., tenuto conto che, per aversi l'esistenza di un "gruppo di imprese", è necessario che una società, detta holding o capogruppo, disponga, nelle società controllate, della maggioranza dei voti sufficienti per avere un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria ovvero quando eserciti un'influenza dominante in virtù di particolare vincoli contrattuali con le stesse. Nel caso di specie, secondo le ricorrenti, tali circostanze non erano state neppure dedotte.
La Cassazione respinge il ricorso, rilevando che, il richiamo all'art. 2359 c.c. non è pertinente atteso che l'unico collegamento tra imprese rilevante, ai fini del giudizio, è quello economico-funzionale. Con l'ulteriore precisazione che, il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo, non è però sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato intercorso con una società si debbano estendere anche alle altre a meno che non si ravvisi un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. In tal caso l'accertamento, che spetta unicamente al giudice di merito, deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario in capo ad un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle diverse imprese (cfr. Cass. 1 aprile 1999, n. 3136; Cass. 23 agosto 2000, n. 11033).
Nel caso in esame, a parere della Suprema Corte, correttamente la Corte di appello di Milano aveva accertato che: tutte le società facevano capo ai due coniugi che costituivano un unico centro direttivo; le diverse attività delle imprese convergevano verso uno scopo comune; le stesse utilizzavano in modo fungibile il personale assunto dalle diverse imprese, utilizzazione promiscua facilitata dalla circostanza che tutte le imprese avevano la medesima sede.
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav. 20 dicembre 2016, n. 26340
Pres. Mammone; Rel. Berrino; Ric. B.G.; Controric. B.P. S.c.a.r.l.
Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Condotta del prestatore di lavoro - Modesta entità del fatto addebitato - Tenuità del danno patrimoniale - Rilevanza - Esclusione - Necessità
In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subîto dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia.
Nota
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ridelinea la fattispecie della giusta causa di licenziamento, specie con riferimento all'entità e alla rilevanza delle conseguenze dannose delle condotte poste a base del recesso.
Nel caso in commento, un dirigente di un istituto di credito era stato licenziato per giusta causa a fronte dei seguenti addebiti: l'aver concesso credito a soggetti a rischio, a volte senza una approfondita preventiva valutazione della loro capacità patrimoniale, altre volte in presenza di sintomi di inaffidabilità (quali, ad esempio, ipoteche e segnalazioni di sofferenze); l'avere disatteso gli inviti a contenere l'eccessivo livello dell'esposizione creditizia della filiale, nonostante fosse stato a ciò personalmente sollecitato con missiva del datore di lavoro; l'aver cercato di "mascherare" la grave situazione di criticità nella concessione e gestione del credito per ventidue posizioni creditizie segnalate.
Il Giudice di prime cure escludeva la sussistenza di una giusta causa e, per l'effetto, condannava la Banca al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. La Corte d'Appello, di contro, reputava sussistente la giusta causa.
Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. in relazione alla "non configurabilità di una giusta causa di recesso a carico di un dirigente bancario ove sia mancato qualsiasi danno per la società datrice di lavoro", non essendo riuscita quest'ultima a provare la ben che minima perdita.
Il Supremo Collegio respinge il ricorso, affermando che la Corte territoriale ha correttamente ravvisato la giusta causa nella lesione del rapporto fiduciario tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto. A tal fine, soggiungono i Giudici di legittimità, non è affatto necessario che la parte datoriale dimostri di aver patito un particolare danno economico dalle operazioni addebitate al dirigente, essendo, invece, rilevante - una volta che il datore abbia dimostrato il fatto ascritto al dipendente, provandolo nella sua materialità e con riferimento all'elemento psicologico del lavoratore - la verifica degli effetti prodotti da tali operazioni sulla permanenza del vincolo fiduciario che deve necessariamente connotare la vita del rapporto lavorativo, in special modo quando si tratti, come nella specie, di un rapporto di tipo dirigenziale, ove l'elemento fiducia assume valore prioritario. Ed infatti - rammenta la Cassazione - in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subîto dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia.
Interpretazione del contratto e patto di prova
Cass. Sez. Lav. 1 dicembre 2016, n. 24560
Pres. Di Cerbo; Rel. Manna; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.F. s.p.a.; Contr. T.G.
Dirigente - Patto di prova - Licenziamento per mancato superamento periodo di prova - Durata semestrale periodo di prova - Rapporto di lavoro iniziato tardivamente rispetto a quanto indicato nel contratto -Interpretazione del contratto - Dato letterale - Intenzione dei contraenti - Durata del patto di prova semestrale a prescindere dalla data di inizio effettivo -Tardività del licenziamento per avvenuta scadenza del periodo di prova - Insussistenza
Nell'interpretazione del contratto il criterio letterale e quello del comportamento delle parti anche successivo al contratto medesimo (v. art. 1362 c.c.) concorrono fra loro in via paritaria a definire la comune volontà dei contraenti. Ne consegue che il dato testuale, pur di fondamentale rilievo, non è di per sé decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo. Quest'ultimo non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extra testuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sè chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.
Nota
Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione affronta il delicato tema delle regole che sovrintendono all'interpretazione del contratto, occupandosi di conferire il significato voluto dalle parti ad un patto di prova relativo ad un contratto di lavoro dirigenziale.
In particolare, nel contratto era specificato che la prova avrebbe avuto durata semestrale; nel contempo, l'inizio dell'attività lavorativa era fissato per una certa data. Premesso tutto ciò, nel contratto si pattuiva, utilizzando la locuzione "Pertanto", che il periodo di prova si sarebbe concluso in una data ivi specificata, distante di sei mesi esatti da quella di inizio delle prestazioni. Sennonchè, successivamente alla stipula del contratto, a causa dell'indisponibilità del lavoratore, si registrava un ritardo nell'inizio effettivo dell'attività lavorativa. Decorsi sei mesi da tale momento, la Società recedeva dal contratto, adducendo il mancato superamento della prova.
Il lavoratore aveva quindi impugnato il licenziamento, eccependo la tardività di tale recesso e, dunque, in quanto non intimato in costanza di prova, la mancanza di giustificazione dello stesso. A parere di quest'ultimo, in base al tenore letterale del contratto, il periodo di prova era da considerarsi terminato alla data indicata in contratto e non a quella - posta invece a base del calcolo datoriale - corrispondente allo scadere dei sei mesi dall'inizio effettivo del rapporto. La Corte d'Appello, in aderenza all'interpretazione offerta dal lavoratore, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato al dirigente.
La Cassazione, applicando l'art. 1362 c.c. - che, nel procedimento interpretativo delle clausole contrattuali, mira alla ricostruzione della reale intenzione dei contraenti: elemento desumibile, oltre che dal dato testuale, dal comportamento complessivo di questi ultimi, anche posteriore alla conclusione del contratto (cfr. il comma 2) - ribalta la sentenza di appello.
Ritiene, infatti, la Corte che, al di là del mero dato letterale, la comune intenzione dei contraenti, desumibile dall'utilizzo della locuzione "pertanto" - posta dopo le specificazioni sia della data di inizio delle prestazioni, sia della durata semestrale del periodo di prova - era che il periodo di prova avesse durata semestrale e non una scadenza "fissa"(da intendersi come indipendente dall'effettivo decorso dei sei mesi di prova). E quindi, nonostante, da un punto di vista letterale, la clausola con cui veniva fissata una data "certa" di scadenza del periodo di prova risultasse di per sé chiara, il giudice, nell'interpretare il suddetto regolamento contrattuale, non avrebbe potuto prescindere dal rapportare tale clausola al contesto dell'accordo e al comportamento complessivo delle parti.
Alla luce di tale operazione, a parere dei giudici di legittimità, alla clausola in parola si sarebbe dovuta attribuire diversa valenza, nella specie "recessiva", rispetto alla volontà dei contraenti di stabilire in sei mesi la durata del periodo di prova (e ciò, quindi, indipendentemente dalla data di effettivo inizio della prestazione di lavoro): elemento volitivo risultante dalle menzionate, ulteriori, attività ermeneutiche che l'interprete è tenuto a ricercare.
La Cassazione ha, dunque, accolto il ricorso dell'azienda datrice di lavoro, rinviando gli atti alla Corte d'Appello.
Il Collegato lavoro in attesa dell’approvazione in Senato
di Andrea Musti, Jacopomaria Nannini