La conflittualità tra ex non è mobbing
Non è mobbing l'atteggiamento riconducibile alla normale conflittualità nell'ambiente lavorativo, anche laddove tale conflittualità risulti accentuata dalle recriminazioni reciproche scaturite dalla fine della relazione sentimentale tra il datore di lavoro e la dipendente.
Con questo principio, contenuto nella sentenza 1381/2018, la Corte di cassazione torna a occuparsi di vessazioni sul luogo di lavoro e conferma il proprio orientamento secondo il quale non può ritenersi sufficiente una mera conflittualità per potersi parlare di mobbing.
La decisione trae origine dal ricorso di una dipendente che, a seguito della rottura della relazione sentimentale instaurata con il proprio datore di lavoro, si era assentata per malattia per oltre nove mesi, e si era poi dimessa per giusta causa, chiedendo la condanna della società al risarcimento dei danni psicofisici che riteneva esserle stati cagionati dalle condotte asseritamente vessatorie e denigratorie poste in essere nei suoi confronti dall'amministratore unico dell'azienda, anche in relazione al manifestato intento di demansionarla.
La lavoratrice, in particolare, aveva denunciato come il datore di lavoro avesse assunto a termine un altro dipendente con lo scopo di emarginarla e demansionarla, e le avesse anche causato continue crisi di pianto, con i suoi atteggiamenti ritenuti aggressivi ed offensivi.
In sede di giudizio di primo grado la donna è risultata vincitrice, ma poi la Corte di appello di Ancona ha ribaltato l'esito del giudizio, escludendo che i fatti denunciati fossero sfociati in aggressioni verbali ed espressioni offensive, essendo piuttosto espressione di una normale conflittualità dell'ambiente lavorativo, certamente accentuata dalle recriminazioni reciproche conseguenti alla fine della relazione. L'assunzione a termine di altro dipendente, quindi, era da considerarsi espressione della libertà di scelta imprenditoriale garantita dall'articolo 41 della Costituzione, e le dimissioni non potevano dirsi sorrette da giusta causa, visto che erano state rassegnate quando la lavoratrice era ormai assente per malattia da molti mesi.
La Corte di cassazione ha respinto il ricorso della dipendente e ha pienamente confermato la decisione della Corte di appello, in assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti circa la condotta lesiva attuata dalla parte datoriale. I giudici di legittimità, infatti, hanno escluso che tutto l'insieme dei fatti denunciati potesse costituire mobbing, “per il difetto di sistematicità e reiterazione degli episodi denunziati ed accertati, come richiesto in relazione alla fattispecie di mobbing”, e hanno negato che gli episodi lamentati fossero in alcun modo lesivi della salute della lavoratrice, perché essi non travalicavano “la normale conflittualità presente in ogni ambito lavorativo, in questo caso accentuata dalle recriminazioni scaturite dalla rottura del legame sentimentale”.
Nel respingere il ricorso, quindi, la Suprema corte ha ribadito il proprio orientamento (da ultimo, sentenza 16335/2017) secondo il quale può astrattamente integrare la fattispecie di “mobbing” solo quella condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro e che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto “terrorismo psicologico”, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni di vario tipo ed entità al dipendente medesimo.
La valutazione delle condotte datoriali spetta ai giudici di merito, in quanto frutto di accertamento di fatto, e se, come nel caso di specie, tale giudizio è logicamente e congruamente motivato, esso si sottrae a ogni sindacato di legittimità.