Previdenza

I correttivi necessari sulla via dell’equità

di Sandro Gronchi

Una delle finalità “costituenti” del sistema contributivo è il pensionamento flessibile, cioè la libertà di scegliere l’età a cui andare in pensione. A parità di contributi versati, la maggior durata della prestazione spettante a chi sceglie di andare prima, è compensata dalla riduzione del coefficiente di trasformazione. In tal modo, è comunque garantita la “corrispettività”, cioè l’equivalenza fra la prestazione complessivamente goduta e la contribuzione complessivamante versata. In realtà, la compensazione sarebbe perfetta se la longevità fosse costante. Nel qual caso, i coefficienti, benché calcolati sulla longevità osservata per le generazioni precedenti, “rifletterebbero” anche quella futura delle generazioni cui sono applicati. La longevità crescente tende, invece, a generare coefficienti “obsoleti”, maggiori del dovuto.

L’obsolescenza aumenta al diminuire dell’età, maggiormente favorendo chi va in pensione più giovane. Le ragioni non sono banali, ma le conseguenze sì. La prima è che occorre evitare discriminazioni eccessive limitando la flessibilità, cioè evitando che l’intervallo delle età pensionabili sia “troppo ampio”. La seconda è che l’età iniziale non può essere “troppo giovane”. La riforma Fornero soddisfece entrambe le esigenze individuando l’intervallo compreso fra il limite inferiore di 63 anni e quello superiore di 66, che nel 2019 saliranno, rispettivamente, a 64 e 67 per effetto dell’aggancio alla speranza di vita.

L’intervallo fu riservato ai lavoratori destinatari di pensioni interamente contributive, che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, mentre agli altri, ormai tutti destinatari di pensioni “miste”, fu imposta un’età pensionabile secca di 66 anni, in procinto di salire a 67 nel 2019. Nell’ancor lunga fase transitoria, si profilano, quindi, discriminazioni insostenibili. Quando potrà andare in pensione a 64 anni chi ha cominciato a lavorare nel gennaio del 1996, a chi ha cominciato il mese prima sarà difficile spiegare che deve aspettarne 67.

Pur non essendo ancora definito, il programma del nuovo governo sembra volere la fine della dicotomia. La nuova “regola unica” sarebbe però fondata su un istituto già sperimentato, le cosiddette “quote”, del tutto estraneo alla logica contributiva. In alternativa, a tutti i lavoratori potrebbe essere esteso il diritto di andare in pensione fra 64 e 67 anni. La maggior durata delle pensioni miste liquidate a meno di 67 anni, sarebbe automaticamente compensata, per la componente contributiva, dalla riduzione del coefficiente di trasformazione. La componente retributiva andrebbe invece assoggettata a un correttivo che, in passato, proposi di “mutuare” da quella contributiva. Ad esempio, per chi vuole andare in pensione a 64 anni, la componente retributiva dovrebbe essere decurtata dello scarto percentuale fra il coefficiente di quell’età e il coefficiente dei 67 anni. Nel medio termine, occorrerebbe rinunciare a buona parte dei risparmi di spesa generati dalla Legge Fornero, che tuttavia sarebbero recuperati nel lungo. L’argomento potrebbe trovare udienza in sede europea spiegando che l’attuale dicotomia è “a rischio di tenuta”.

Resta l’annoso problema della pensione d’anzianità, a cui nel 2019 gli uomini potranno accedere dopo aver contribuito per 43 e 3 mesi e le donne per 42 e 3 mesi. Pur trascurando l’aggravante del “lavoro precoce”, tenuto conto dell’obbligo scolastico di 15 anni, alla pensione d’anzianità si potrà quindi accedere appena superati 57 o 58 anni, a seconda del genere. Mediamente, un uomo di 58 anni ne vive altri 25 e lascia un coniuge più giovane di 5 anni che sopravvive per 12. Perciò la durata complessiva della prestazione pensionistica può essere stimata, in base alle attuali tavole di sopravvivenza, in 37 anni. Aggiungendo la crescita che la longevità subirà nel frattempo, la prestazione potrà infine durare quasi quanto la contribuzione. Tuttavia, la seconda è il 33% del salario, mentre la prima, in base al calcolo retributivo, è l’80%, suscettibile di diventare il 48% per il superstite. Pur trascurando dettagli importanti, questi semplici dati bastano a evidenziare insostenibilità e privilegio. Ciò nonostante, il governo vuole abbassare il requisito contributivo a 41 anni indistinti per genere.

In verità, sarebbe quantomeno necessario assoggettare la componente retributiva della pensione d’anzianità alla stessa correzione che, nella proposta dello scrivente, opera su quella della pensione di vecchiaia. Varrebbe anche la pena di riflettere su un istituto tipicamente italiano, che l’obsolescenza dei coefficienti manterrà iniquo e costoso anche quando il sistema contributivo sarà a regime.

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