Contrattazione

È la produttività la via per rilanciare i contratti

di Marco Bentivogli

Chi fa il sindacalista sa bene che non è sufficiente fare una «campagna sui salari». L’iniziativa ha qualche possibilità di successo se ci si occupa dei problemi strutturali che ne impediscono una dinamica positiva. La soluzione non è uno scambio sulla qualità e la stabilità dell’occupazione e la crescita salariale. Avanzano contratti temporanei a tempo parziale e con basse retribuzioni, spesso fuori dalla contrattazione. Non solo, in Italia il 90% degli occupati sono nelle Pmi e i dati della Commissione europea mostrano chiaramente che la produttività (sul Clup) delle aziende sopra i 200 dipendenti è pari o al di sopra delle eccellenze europee. È sotto i 20 e i 10 dipendenti che i problemi diventano insormontabili. E i motivi per cui le aziende non crescono sono spesso quelli per cui sono lodate.

Siamo alla vigilia della quarta rivoluzione industriale, una vera e propria nuova era delle produzioni, che saranno sempre più per piccoli lotti, sartoriali. I contratti nazionali non hanno finito il loro ruolo, ma devono configurarsi come cornice di garanzia. Dire che il contratto nazionale, con bassa inflazione (anche negativa) deve solo adeguare al potere di acquisto, non è stato facile nei metalmeccanici. Permangono posizioni, in una parte del sindacato, che a causa della scarsa diffusione dei contratti aziendali, sostengono la distribuzione di produttività media o addirittura del Pil nei contratti nazionali. Nei metalmeccanici il 37% delle aziende ha il contratto aziendale (dati Federmeccanica) ma in queste aziende lavora il 70% dei lavoratori della categoria. Un buon tasso di copertura che conferma però la difficoltà a diffondere la contrattazione nelle piccole imprese.

Il contratto nazionale dei metalmeccanici non ha subìto, ha scelto che non vi saranno più sovrapposizioni tra il livello nazionale e quello aziendale. Sovrapposizione che ha reso difficili i rinnovi nazionali e non aiutato lo sviluppo del secondo livello. La produttività va favorita dalla contrattazione ma distribuita dove si esplica il lavoro e la produzione, in azienda. Collegare la contrattazione alla produttività può avvenire solo dove essa si realizza e si genera. La sovrapposizione dei due livelli deriva da un dibattito non risolto nel sindacato. In realtà, l’appello di Draghi, rilanciato da Alberto Orioli, va raccolto anche dalle imprese, molto affezionate alla centralizzazione contrattuale, preferendo un contratto nazionale lontano e aumenti ad personam scollegati da qualsiasi meritocrazia trasparente in sistemi di inquadramento moderno. Anche erogare aumenti lontani dal “merito” fa male alla produttività.

Servono strumenti di promozione, di tutela e miglioramenti produttivi e redistribuzione dei risultati di prossimità. Ha ragione Draghi: la contrattazione decentrata va sviluppata e portata su orizzonti nuovi. Ho iniziato il mio percorso sindacale facendo un contratto aziendale in un’azienda di Bologna di 35 dipendenti. Farlo sotto quella soglia è una rarità.

Perché non pensare alla contrattazione territoriale, non come un livello negoziale aggiuntivo, né come un contratto aziendale dilatato nel territorio. Perché non mettere insieme le imprese su elementi comuni di crescita, su difficoltà che solo insieme si possono vincere e magari costruendo piattaforme comuni con cui valorizzare un rapporto con istituzioni spesso anti-industriali.

La contrattazione territoriale può essere la sede dove si costruisce l’ecosistema 4.0 che è la precondizione per partecipare alla quarta rivoluzione industriale. Può essere la sede di una scommessa comune che rivitalizzi il territorio. Il grande Ezio Tarantelli diceva già molti anni fa dove si va a finire quando «ognuno prosegue nei propri riti propiziatori» soprattutto oggi dove riemerge un’ideologizzazione del lavoro che non ha eguali nella nostra storia. Ma il sindacato non è tutto uguale e le generalizzazioni aiutano sempre le posizioni di retroguardia.

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