Le mansioni diverse limitano la libertà di licenziamento
In ogni tipo di contratto di lavoro le parti possono prevedere un periodo di prova per consentire a entrambe di valutare la convenienza del rapporto. Il patto di prova deve essere scritto e sottoscritto da entrambe le parti. In caso contrario è nullo e viene considerato come non apposto.
Il recesso intimato nel corso o al termine del periodo di prova ricade nell’area del recesso ad nutum, ovverosia ha natura discrezionale e non deve essere motivato, tuttavia tale regime di libera recedibilità non è assoluto e sempre automatico. In particolare, durante il periodo di prova incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illegittimità del recesso nel caso in cui la durata del patto sia inadeguata al fine di accertare le proprie capacità professionali. Così ha stabilito la Corte d’appello di Perugia, con la sentenza n. 22 del 17 maggio 2012, definendo la controversia tra un dipendente e la società datrice di lavoro che lo licenziava dopo soli 35 giorni di periodo di prova (a fronte dei sei mesi pattuiti).
Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sostenendo che il breve periodo di esperimento della prova avrebbe reso il recesso intimato illegittimo. La Corte territoriale, confermando la decisione del Tribunale, riconosceva come il rapporto di lavoro in prova sia sottratto, per il periodo massimo di sei mesi, alla disciplina dei licenziamenti individuali e che il recesso intimato dal datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e, come tale, dispensa il datore dall’onere di provarne la giustificazione. Tuttavia, non si può configurare un esito negativo della prova qualora la durata dell’esperimento non sia adeguata ad accertare la capacità lavorativa del lavoratore in prova, sul quale inoltre incombe il relativo onere probatorio.
Nel caso in questione, osservava la Corte, il periodo trascorso era sembrato sufficiente per valutare la convenienza della prosecuzione del rapporto e, del resto, il dipendente non aveva fornito la prova contraria. La questione è tutt’altro che incontestata, atteso che sono occorsi tre gradi di giudizio per definirla.
Secondo un altro principio affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 10618 del 22 maggio 2015, la valutazione del datore di lavoro riguardo al mancato superamento della prova deve essere ricondotta all’inesatto o inadeguato svolgimento delle mansioni espressamente individuate nel patto. Pertanto, lo svolgimento di incombenze differenti rispetto a quelle concordate comporta l’illegittimità del recesso intimato. Il caso riguardava una dipendente che aveva svolto, nel corso del periodo di prova, due tipi di mansioni differenti. In particolare, in un primo periodo aveva eseguito le mansioni pattuite nel contratto di lavoro, mentre in un periodo successivo, mansioni inferiori.
Al termine del periodo di prova la lavoratrice veniva licenziata, ma i giudici di primo e secondo grado censuravano la decisione della datrice di lavoro reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro. La Cassazione confermava le decisioni dei giudici di merito affermando che, ai fini della valutazione dell’esito del periodo di prova, deve necessariamente essere data rilevanza alle mansioni espressamente pattuite nel patto di prova inserito nel contratto di lavoro.