Repêchage a rischio boomerang per il lavoratore
Affinché il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia legittimo, è sufficiente che poggi su ragioni imprenditoriali non pretestuose, che comportino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo aziendale attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa.
Il motivo oggettivo alla base del licenziamento, in quanto inerente all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, è infatti rimesso alla libera valutazione del datore di lavoro e come tale non sindacabile dal giudice, che deve limitarsi a verificarne la reale sussistenza. Tale principio, peraltro, è valido anche nel caso in cui il riassetto organizzativo non sia determinato da una crisi aziendale, ma abbia come scopo una migliore efficienza gestionale o un incremento di produttività.
Questo, in estrema sintesi, quanto recentemente statuito dalla Corte di cassazione (sentenza 30259/2018), la quale ha peraltro rilevato come non sia necessaria, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo, l'integrale soppressione delle mansioni in precedenza affidate al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite e distribuite tra il personale già in forza presso l'azienda.
Nel caso preso in esame dalla Suprema corte, le ragioni del licenziamento erano rinvenibili nella perdurante situazione di crisi aziendale, la quale era stata accertata dalle Corti di merito sia in via documentale – stante la significativa perdita di fatturato evincibile dai bilanci sociali prodotti dalla società – che da altre circostanze di fatto, quali la drastica riduzione dei siti produttivi dell'azienda (molti dei quali ceduti a terzi) e la collocazione in cassa integrazione di gran parte del personale.
Pertanto la Cassazione ha confermato la legittimità della decisione aziendale di chiudere l'impianto produttivo a cui era addetto il ricorrente, con conseguente soppressione della sua posizione lavorativa e redistribuzione delle mansioni tra il personale già esistente. A tal riguardo, i giudici di legittimità hanno infatti chiarito che, una volta che venga «accertata, come nella specie, la effettiva e non pretestuosa soppressione del posto di lavoro, anche attraverso la redistribuzione delle mansioni tra gli altri dipendenti, ciò è sufficiente, nel rispetto del principio di cui all'articolo 41 della Costituzione (che garantisce la libertà dell'iniziativa economica, n.d.r.), a giustificare il licenziamento».
La Suprema corte ha peraltro confermato la legittimità del licenziamento anche sotto il profilo dell'obbligo di repêchage, non avendo trovato riscontro quanto asserito dal dipendente licenziato, ovvero di essere stato sostituito con personale neoassunto. I giudici di merito hanno infatti evidenziato, da un lato, come tali nuove assunzioni avessero riguardato mansioni differenti rispetto a quelle del ricorrente, dall'altro, che all'epoca del licenziamento non vi erano in azienda posizioni lavorative vacanti presso le quali ricollocarlo.
Su quest'ultimo punto i giudici di legittimità hanno rilevato che «pur non essendo il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo tenuto ad indicare le altre posizioni lavorative esistenti in azienda al momento del recesso…ove questi non di meno indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata…dal giudice al fine di escludere la possibilità di repêchage».
Di fatto, pur mostrando di voler dar seguito all'orientamento, affermatosi di recente, che pone interamente a carico del datore di lavoro l'onere della prova in materia di repêchage, la Suprema corte sembra richiedere a chi difende i lavoratori una precisa scelta processuale: infatti, qualora il dipendente, pur non essendovi tenuto, decida di indicare le posizioni nelle quali avrebbe potuto essere ricollocato al fine di evitare il licenziamento, la verifica giudiziale circa il corretto assolvimento dell'obbligo di repêchage potrà limitarsi a queste ultime, con conseguente sostanziale ribaltamento dell'onere della prova.
Il Collegato lavoro in attesa dell’approvazione in Senato
di Andrea Musti, Jacopomaria Nannini