Risarcimento se non si reintegra
L’indennità dovuta dall’azienda che si rifiuta di eseguire l’ordine provvisorio di riammissione in servizio del dipendente licenziato (illegittimamente), che la legge Fornero, nel 2012, ha circoscritto entro un massimo di 12 mensilità, ha natura «risarcitoria» e non «retributiva», con la conseguenza, quindi, che in caso di riforma della pronuncia di reintegrazione, l’imprenditore può chiedere la «ripetizione» di tali somme.
Il chiarimento è arrivato ieri dalla Corte costituzionale che, con sentenza 86/2018, relatore Mario Morelli, è tornata ad analizzare l’articolo 18 dello Statuto, come novellato dalla legge 92/2012. La questione interessa perciò i “vecchi” assunti, non le nuove “tutele crescenti” introdotte dal Jobs act dal 7 marzo 2015; ed è un tema “di nicchia ”: la riforma del governo Monti, che ha operato una prima “scalfitura” alla tutela reale, ha previsto, in caso di recesso datoriale ingiustificato, accanto alla reintegra, il pagamento di un’indennità monetaria (entro il tetto delle 12 mensilità) per “ristorare” il lavoratore nel periodo intercorrente tra la pronuncia e l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. Ebbene, il Tribunale di Trento ha messo nel mirino la norma, evidenziando come la qualificazione dell’indennità come risarcitoria «sarebbe irragionevole», in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, determinando «un’ingiustificata disparità di trattamento» in relazione alla repetibilità delle somme assegnate al lavoratore, tra la posizione del datore che ottemperi all’ordine di reintegra, e quella dell’imprenditore che non vi dia esecuzione.
Per la Corte la questione «è infondata»: l’inadempimento datoriale configura, infatti, un «illecito istantaneo ad effetti permanenti», da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno. La norma denunciata, pertanto, non è irragionevole ma «coerente al contesto della fattispecie disciplinata» perché, spiega la Corte, l’indennità è collegata a una «condotta contra ius del datore e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente». Di qui la sua natura risarcitoria (e non retributiva).
La Consulta ha poi concluso che “scommettere” sulla riforma della pronuncia di reintegra, senza eseguirla, può essere fonte di risarcimento danni da parte dell’azienda (il lavoratore può mettere in mora l’impresa e chiedere i danni in via riconvenzionale).
«La pronuncia della Corte - commenta Sandro Mainardi (università di Bologna) fa chiarezza , esattamente qualificando l’«indennità risarcitoria» dovuta per la mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione quale «risarcimento del danno» per condotta contra ius e non, come nel regime previgente, quale corrispettivo collegato alla mancata prestazione di lavoro da parte del dipendente. La soluzione di ritenere non fondata la questione appare quindi coerente con il quadro normativo introdotto dalla riforma del 2012, ad esempio con riguardo alla deduzione dell’aliunde perceptum; ed anche equilibrata rispetto alle posizioni assunte dalle parti a seguito dell’ordine di reintegrazione».