Rapporti di lavoro

Il ruolo irrinunciabile dei corpi intermedi

di Giorgio Vittadini

Sollecitando sul Sole 24 Ore un dibattito su nuovi lavori e nuove regole nell’era della Gig economy, Alberto Orioli ha citato il «sistema virtuoso dei voucher» come esperienza italiana di mercato del lavoro “bruciata” da un approccio politico-regolamentare rigido, datato. Un’angolatura incapace - forse anche per qualche inerzia ideologica - di esplorare e sperimentare davvero il nuovo. Come affrontare e superare il bivio novecentesco “subordinazione versus autonomia” nel lavoro?

La parabola dei voucher è certamente esemplare. Come ha spesso notato Pietro Ichino, i “buoni” non sono mai stati un’anomalia ma piuttosto una risorsa per il mercato del lavoro nazionale. Non si sono mai proposti come strumento egemone di contrasto alla disoccupazione giovanile od “over 50”, all’insegna di una flessibilizzazione selvaggia. Non hanno mai preteso di coinvolgere i 7 milioni di mini-jobber tedeschi: ma nell’ultimo anno di operatività piena (il 2016) i voucher italiani hanno fatto lavorare in modo flessibile e legale 1,7 milioni italiani. Hanno generato lavoro (reddito) “aggiunto”, non sottratto ad altri: il controvalore dei 133 milioni di voucher utilizzati è stato pari a 50mila posizioni full time, meno dell’1% della forza lavoro italiana.

Da quando comunque la riforma Biagi li ha inseriti in una rinnovata “cassetta di attrezzi”, i voucher hanno conosciuto solo un’affermazione rapida: dal mezzo milione del 2008 , sono decollati fino al quasi-raddoppio annuale fra 2014 e 2015 (115 milioni), prima che il referendum anti-Jobs Act trovasse in essi il terreno pretestuoso di uno scontro puramente politico. Stagionali agricoli e insegnanti ripetitori, babysitter e addetti al turismo o alla distribuzione commerciale: l’Azienda-Italia è sempre stata piena di Gig worker più o meno tradizionali, anche prima dei rider di Foodora.

I voucher - nell’Italia attanagliata dalla recessione e dalla disoccupazione giovanile - hanno mostrato di saper fare la loro parte. C’era qualche sintomo di abuso? Sarebbe stata sufficiente un’azione amministrativa più incisiva sul piano dell’ispezione; oppure - com’era stato suggerito da più parti - una “manutenzione” alla regulation. Invece è stato sacrificato un buon tentativo di tenere le mutazioni del lavoro e del suo mercato in un territorio di regole e riforme, ciò che che contraddistingue la civiltà economica europea.

Un dibattito aggiornato su lavoro e Gig economy appare quindi più che opportuno (sarà al centro anche di Mesharea, un format innovativo che la Fondazione per la Sussidiarietà ha deciso di promuovere nell’ambito del Meeting di Rimini 2018). È anzitutto un buon modo per obbligare forze politiche e sociali a interrogarsi qui e ora sulla reale agenda-Paese.

Il Jobs Act è stato assieme a Industria 4.0 l’eredità positiva dell’ultima legislatura: sarebbe un errore se quella appena iniziata - e il nuovo governo - la ignorassero e archiviassero.

Le politiche attive e il ruolo delle agenzie di servizi per il lavoro sono una strategia ancora in attesa di sviluppo, senza dimenticare i progetti già sperimentati da Regioni come la Lombardia. Gli incentivi alla digitalizzazione industriale hanno creato investimenti, Pil, competitività esterna per il made in Italy: ora devono vincere la sfida dell’occupazione, sul terreno della “formazione 4.0”.

È una prospettiva - quella offerta a ingegneri e periti industriali - che può sembrare lontana dai problemi quotidiani di Gig worker e Neet. In realtà tutti i giovani - disoccupati, poco occupati, occupabili - condividono una legittima esigenza-aspettativa: quella di poter imboccare percorsi “di regole”, in cui l’education diventa un volano per l’intera Azienda-Paese. Regole che nel ventunesimo secolo non possono più essere quelle uni-dimensionali di una legislazione o di una contrattazione nazionali. Sono “regole” che - sempre di più - attendono di essere prodotte da coloro che le devono poi utilizzare: le imprese, i lavoratori, le loro associazioni: i corpi intermedi al cui ruolo cui l’Azienda-Italia non può rinunciare. Per questo l’impegno per la riforma dei contratti, formalizzato da Confindustria e organizzazioni sindacali quattro giorni dopo il 4 marzo appare a tutt’oggi un esito più rilevante di quello dello stesso voto politico.

*Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà

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