Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento del dirigente
Sanzioni conservative e codice disciplinare
Licenziamento per mancato superamento della prova
Licenziamento individuale e obbligo di repêchage
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav. 21 dicembre 2016, n. 26464

Pres. Amoroso; Rel. Manna; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.O.; Controric. T. S.r.l. e A.W.H.&R S.p.A.

Dirigente - Licenziamento - Mancato accordo con il datore di lavoro sul periodo di fruizione delle ferie - Insussistenza giusta causa - Giustificatezza - Nozione - Sussistenza - Principio di proporzionalità - Inapplicabilità

Il potere del dirigente di scegliere da sé il periodo di godimento delle ferie incontra pur sempre il limite d'una contraria previsione del contratto collettivo (o, se del caso, di quello individuale), che ben può subordinarlo all'accordo con il datore di lavoro. Ciò non incide sul diritto irrinunciabile alle ferie, poiché concerne soltanto la scelta dei relativi tempi di fruizione.

Il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale fa si che la nozione contrattuale di giustificatezza del licenziamento del dirigente sia integrata da qualunque motivo, purché giustificato, ossia costituente base di una decisione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, i quali non richiedono l'analitica verifica di specifiche condizioni, ma una globale valutazione che escluda l'arbitrarietà del licenziamento del dirigente. Ciò impone di escludere l'applicabilità della regola di proporzionalità dettata dall'art. 2106 c.c. in relazione alla verifica non d'una giusta causa o d'un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ma della mera sua giustificatezza ai fini del riconoscimento o meno dell'indennità supplementare.

Nota

Il Tribunale di Roma accoglieva il ricorso di un dirigente licenziato per giusta causa, condannando il datore di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso e dell'indennità supplementare, prevista dal CCNL applicato (dirigenti aziende alberghiere).

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, pur confermando l'insussistenza di una giusta causa di recesso, riteneva il licenziamento giustificato poiché il dirigente, avendo maturato ferie arretrate, era andato in ferie senza concordarlo con la società e pur essendo consapevole che durante il periodo di assenza avrebbe dovuto effettuare importanti pagamenti per conto dell'azienda.

Avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva in Cassazione; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

Il ricorrente, per quel che qui interessa, impugnava la sentenza d'Appello, da un lato, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 36, co. 3 Cost. e 10, co. 1 D.Lgs. 66/2003 per non aver riconosciuto il suo diritto di usufruire le ferie arretrate e, dall'altro, censurando la violazione dell'art. 2106 c.c., avendo ritenuto giustificato il licenziamento, nonostante la sproporzione della sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso.

Sul motivo di ricorso relativo al diritto, costituzionalmente garantito, di usufruire delle ferie, la Suprema Corte ha chiarito che il potere del dirigente di scegliere da sé il periodo di godimento delle ferie ben può essere derogato dalla previsione del contratto collettivo (o, se del caso, di quello individuale) che impone di concordare con il datore di lavoro i periodi di fruizione delle ferie. Previsione che non incide sul diritto irrinunciabile alle ferie, rilevando esclusivamente ai fini della scelta dei periodi di fruizione. Il CCNL applicato prevedeva che il godimento delle ferie "in una o più soluzioni" dovesse essere concordato tra dirigente e datore di lavoro, compatibilmente con le necessità aziendali. Ad avviso della Corte, tale disposizione, deve valere anche per le ferie arretrate, perché la loro successiva fruizione, non essendo limitata ai "consueti" periodi dell'anno appunto, deve essere, a maggior ragione, pianificata tra le parti.

Probabilmente ancor più interessante è la disamina del motivo di ricorso relativo all'asserita violazione del principio di proporzionalità ex art. 2106 c.c. tra illecito disciplinare e relativa sanzione. Ebbene, la Suprema Corte ha statuito che il giudizio di proporzionalità tra l'infrazione disciplinare e il licenziamento è dovuto solo ai fini della verifica d'una giusta causa (già esclusa dalla Corte di merito), ma non anche ai fini della c.d. giustificatezza. Infatti, il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale fa si che la nozione contrattuale collettiva di giustificatezza del licenziamento sia integrata da qualunque motivo, purché giustificato, ossia costituente base di una decisione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, i quali non richiedono l'analitica verifica di specifiche condizioni, ma una globale valutazione che escluda l'arbitrarietà del licenziamento del dirigente. Si deduce, quindi, che nella valutazione della giustificatezza non sia ricompreso alcun giudizio di proporzionalità tra il motivo posto a fondamento del recesso e il licenziamento stesso.
 

Sanzioni conservative e codice disciplinare

Cass. Sez. Lav. 3 gennaio 2017, n. 54

Pres. Nobile; Rel. Ghinoy; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.C.; Controric. C.R.V. s.p.a.

Sanzioni disciplinari conservative - Codice disciplinare - Violazione di obblighi rientranti nel minimo etico ovvero tutelati penalmente - Irrilevanza previsione ed affissione codice disciplinare - Violazione di regole e direttive societarie interne - Necessità previsione ed affissione codice disciplinare

Anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative - e non per le sole sanzioni espulsive - deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta.

Nota

La Corte d'appello di Venezia, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per otto giorni irrogata a cagione delle reiterate anomalie riscontrate nelle operazioni di concessione del credito poste in essere da un dipendente in violazione di norme e circolari interne. In particolare, secondo la Corte territoriale, la mancata affissione del codice disciplinare valorizzata dal Tribunale è irrilevante, dato che la condotta contestata non trova la propria fonte nelle regole di comportamento dettate dalla contrattazione collettiva, ma discende da disposizioni interne alla società in materia di affidamenti bancari ed erogazione di finanziamenti, pertanto si tratta di regole inerenti al dovere di cui all'articolo 2104 c.c., la cui violazione comporta la lesione di interessi del datore di lavoro, indipendentemente dal loro inserimento nel codice disciplinare.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione censurandola (tra l'altro) laddove si è ritenuta non necessaria la predeterminazione della condotta vietata nel codice disciplinare e la sua pubblicizzazione mediante affissione. A parere del ricorrente, infatti, per le sanzioni conservative - diversamente da quelle espulsive - sarebbe sempre necessaria l'affissione del codice disciplinare, inoltre, nel caso di specie, tale adempimento era indispensabile in quanto le condotte attenevano a violazione di normative interne e non già a doveri e/o obblighi generali e generalizzati.

La Suprema Corte respinge il primo motivo di ricorso, affermando il principio di cui alla massima già sancito in numerosi precedenti analoghi (Cass 29 maggio 2013, n. 13414; Cass. 27 gennaio 2011; Cass. 2 settembre 2004, n. 17763) e sottolineando l'evidente illogicità della contraria opinione che finirebbe per tutelare maggiormente la conoscibilità da parte del lavoratore della possibilità di subire sanzioni conservative rispetto a quelle espulsive.

La Cassazione accoglie, invece, il secondo motivo di ricorso, censurando la decisione della Corte territoriale laddove ha ritenuto che l'osservanza di norme operative, circolari e direttive societarie interne, rientrando nel generale dovere di diligenza ex art. 2104 c.c., non richieda la pubblicizzazione mediante affissione del codice disciplinare. Ribadendo principi già sanciti (Cass. 21 luglio 2015, n. 15218) precisa, infatti, la Cassazione che, quando la condotta contestata al lavoratore è violatrice non di generali obblighi di legge, ma di puntuali regole comportamentali negozialmente previste e funzionali al migliore svolgimento dello specifico rapporto di lavoro, la pubblicizzazione mediante affissione del codice disciplinare è presupposto necessario per la legittimità della sanzione. Riconducendo tutte le condotte all'interno della violazione del dovere di diligenza si verrebbe, infatti, di fatto, a svuotare di contenuto la previsione della previa pubblicizzazione delle norme disciplinari sancita dall'art. 7 St. lav.

La sentenza viene, pertanto, cassata su tale aspetto e la causa decisa nel merito non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto.

 

Licenziamento per mancato superamento della prova

Cass. Sez. Lav. 18 gennaio 2017, n. 1180

Pres. Nobile; Rel. Ghinoy; P.M. Ceroni; Ric. C.G.; Controric. G.S.K. S.p.A.

Licenziamento - Mancato superamento della prova - Motivo estraneo alla prova - Accertamento - Necessità

In caso di licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova incombe sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l'onere di provare, secondo la regola generale di cui all'art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da un motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova.

Nota

La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza del Tribunale di Verona che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro ad un informatore farmaceutico per mancato superamento della prova, ed aveva condannato la società al pagamento in suo favore, a titolo di risarcimento dei danni, della somma corrispondente a n. 10 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre alla rifusione delle spese di lite.

A fondamento della propria decisione la Corte di appello rilevava che il lavoratore aveva dimostrato che la prova aveva avuto esito positivo. Quanto alle conseguenze sanzionatorie la Corte territoriale evidenziava che all'illegittimo recesso poteva fare seguito solo il risarcimento del danno, in quanto la tutela reale di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970, la cui applicazione era stata richiesta dal lavoratore, sarebbe potuta derivare solo nel caso di un recesso intimato per un motivo illecito o estraneo alla prova, mentre le risultanze istruttorie non erano univoche in tal senso.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore affidato a due motivi, cui resisteva con controricorso la società datrice di lavoro, la quale proponeva altresì ricorso incidentale affidato ad un unico motivo. Avverso il ricorso incidentale resisteva, a sua volta, il lavoratore con controricorso.

Tramite il ricorso principale il ricorrente lamentava che la Corte di appello avesse ritenuto non dimostrata la circostanza che il recesso fosse stato determinato da un motivo estraneo alla prova, laddove il positivo superamento della prova medesima, pure accertato dai giudici di secondo grado, doveva considerarsi di per sé sufficiente a far presumere l'esistenza di un motivo estraneo. Ciò tenuto conto, peraltro, che la società non aveva negato che il ridimensionamento aziendale, che aveva fatto seguito all'accorpamento di due linee di prodotti, avesse comportato la soppressione di posti di lavoro.

A fondamento del ricorso incidentale la società deduceva, invece, che in relazione al preteso positivo superamento della prova, la Corte di appello, pure avendo premesso che durante il periodo di prova vi sono ampi margini di discrezionalità concessi al datore di lavoro al fine di valutare la prestazione del dipendente, avesse contraddittoriamente ritenuto insufficiente quanto emerso in ordine allo stile dell'informatore scientifico, non coerente con il modello da adottare nell'ambito dei rapporti con gli interlocutori e i colleghi.

La Corte di Cassazione accoglieva, pertanto, il ricorso incidentale e rigettava il ricorso principale, cassando la sentenza con rinvio alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione.

In particolare, la Suprema Corte, in continuità con quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 189 del 1980, e dopo aver affermato che il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, ha tuttavia aggiunto che incombe sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l'onere di provare, secondo la regola generale di cui all'art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da un motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova (cfr. Cass. n. 16224 del 27.6.2013, nonché Cass. n. 21784 del 14.10.2009).

La Suprema Corte ha altresì chiarito che poiché la valutazione datoriale in ordine all'esito della prova è ampiamente discrezionale, la dimostrazione da parte del lavoratore dell'esito positivo dell'esperimento non è di per sé sufficiente ad invalidare il recesso, assumendo rilievo tale circostanza se ed in quanto manifesti che il recesso è stato determinato da motivi diversi.

Sulla base di tali premesse la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse contraddetto le stesse premesse del proprio ragionamento, discostandosi in tal modo dal corretto inquadramento giuridico della questione, laddove pure avendo ammesso che sussistano ampi margini di discrezionalità nella valutazione dell'esperimento, ha dichiarato il recesso illegittimo non in quanto era stato determinato da motivi estranei al mancato superamento della prova, ma in quanto la valutazione negativa espressa dal datore di lavoro sull'esito dell'esperimento non era ritenuta giustificata.

In altri termini, secondo quanto ritenuto dalla Suprema Corte, l'avere la Corte territoriale ritenuto sufficiente a fini invalidanti del recesso il fatto che la prova avesse avuto esito positivo, l'ha indotta a non considerare se tale aspetto deponesse per l'esistenza di un motivo diverso da quello del mancato superamento dell'esperimento stesso, e quindi costituisse un elemento da valutare a tali fini, unitamente alle ulteriori risultanze istruttorie.

 

Licenziamento individuale e obbligo di repêchage

Cass. Sez. Lav. 21 dicembre 2016, n. 26467

Pres.Napoletano; Rel. Spena; P.M. Ceroni; Ric. C.R.; Controric. I.M. S.p.a.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Per giustificato motivo oggettivo - Criteri di individuazione del soggetto da licenziare - Fattispecie

Nei casi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la legittimità del licenziamento è condizionata alla sola verifica della effettività della esigenza di riduzione del personale e del rapporto di causalità tra tale esigenza ed il licenziamento concretamente operato, sicché una questione di comparazione si pone nei soli casi in cui la esigenza di riorganizzazione aziendale sia potenzialmente riferibile ad una pluralità di posizioni di lavoro.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Per giustificato motivo oggettivo - Soppressione del posto di lavoro - Obbligo di "repêchage" - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Oggetto - Insussistenza di posizione di lavoro analoga - Necessità - Prospettazione di impiego in mansioni inferiori - Necessità

Nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo l'onere del datore di lavoro di provare l'adempimento all'obbligo di repêchage va assolto anche in riferimento a posizioni di lavoro inferiori, ove rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l'assetto organizzativo aziendale; il datore di lavoro, in conformità al principio di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto, è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento ed a fornire la relativa prova in giudizio.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento per soppressione del posto di lavoro intimato da una società ad un proprio dipendente, deducendo l'impossibilità di un rimpiego alternativo di quest'ultimo in mansioni equivalenti o inferiori.

La domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento veniva accolta in primo grado e successivamente rigettata dalla Corte d'Appello di Milano.

In particolare, la Corte d'Appello osservava che il lavoratore nel ricorso di primo grado non aveva indicato in modo specifico alcuna posizione lavorativa nella quale avrebbe potuto essere utilmente ricollocato ma si era limitato ad elencare in modo generico astratte categorie di possibili mansioni; inoltre, l'istruttoria espletata aveva consentito di accertare l'impossibilità della ricollocazione del lavoratore in mansioni equivalenti. Il lavoratore non poteva neppure invocare un obbligo di assegnazione a mansioni inferiori, posto che lo stesso non aveva dimostrato l'esistenza tra le parti di un patto di demansionamento anteriore o coevo alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Ricorre per Cassazione il lavoratore con vari motivi di ricorso.

Con il primo motivo di ricorso deduce che la Corte di merito ha erroneamente affermato che la soppressione della posizione esonerava il datore di lavoro dall'onere di provare il rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede nella scelta del dipendente da licenziare.

La Corte di Cassazione da ritenuto tale motivo infondato, poiché nel giudizio di merito era stato accertato che il lavoratore era l'unico addetto ad una determinata mansione (manutentore) nella sede di assegnazione, pertanto non vi era alcun margine discrezionale nella scelta del lavoratore da licenziare. Una comparazione con i dipendenti addetti ad altre sedi aziendali avrebbe potuto, infatti, essere valutata solo in ipotesi di licenziamento collettivo. Del resto, nelle ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la legittimità del licenziamento è condizionata alla sola verifica della effettività della esigenza di riduzione del personale e del rapporto di causalità tra tale esigenza ed il licenziamento concretamente operato, sicché una questione di comparazione si pone nei soli casi in cui la esigenza di riorganizzazione aziendale sia potenzialmente riferibile ad una pluralità di posizioni di lavoro e non anche invece su base territoriale.

Con altro motivo di ricorso il lavoratore deduce l'erroneità della sentenza della Corte di merito per aver ritenuto a carico del lavoratore l'onere di dimostrare di avere preventivamente offerto al datore di lavoro la propria disponibilità a svolgere mansioni inferiori; al contrario, gravava sul datore di lavoro la prova di avergli preventivamente offerto l'impiego in mansioni di livello inferiore quale alternativa al licenziamento.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha precisato, innanzitutto, che, fermo restando che l'eventuale patto di demansionamento deve essere anteriore o coevo al licenziamento, in tanto il consenso del lavoratore rispetto all'assegnazione a mansioni inferiori può essere espresso in quanto il datore di lavoro, in ottemperanza al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, gli abbia prospettato la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori (cfr. da ultimo Cass. n. 4509/2016).

Il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore ha l'onere di provare, dunque, non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro alla quale egli avrebbe potuto essere assegnato per l'espletamento di mansioni equivalenti ma anche di avergli prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale. Ebbene, tale accertamento, nel caso di specie, non risulta essere stato svolto.

In accoglimento di tale motivo di ricorso, la sentenza impugnata è stata cassata e gli atti rimessi ad altro giudice di merito.


Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 11 gennaio 2017, n. 489

Pres. Bronzini; Rel. Negri della Torre; P.M. Matano; Ric.C.; Controric. S. S.p.A.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - Criteri di scelta del personale - Applicazione dei criteri di scelta con riferimento all'unità produttiva - Ammissibilità - Condizioni - Indicazione delle ragioni - Necessità - Omissione - Conseguenze

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui all'art. 5, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 citata, le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione.

Nota

La Corte di appello di Palermo accoglieva il ricorso proposto dalla Società e dichiarava legittimi i licenziamenti comunicati ai dipendenti all'esito di una procedura di licenziamento collettivo.

Secondo la Corte, la Società aveva correttamente dimostrato che la decisione di restringere l'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare solamente a quelli in servizio presso una singola unità produttiva rispetto al più ampio complesso aziendale (che comprendeva altre sedi), fosse sostenuta da precise esigenze tecnico-produttive e organizzative e cioè, in particolare, dal fatto che solo con riferimento a quella unità produttiva erano definitivamente venute meno delle commesse.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione un lavoratore contestando alla Corte territoriale di non aver considerato che la scelta dei dipendenti da licenziare era stata illegittimamente effettuata dalla società solo con riguardo alla sede operante nella provincia di Palermo, escludendo i lavoratori delle altre sedi provinciali, in contrasto con la previsione normativa per la quale l'individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio, oramai consolidato, secondo il quale, in tema di licenziamento collettivo per riduzione del personale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione può essere limitata agli addetti di un determinato reparto o settore, ove ricorrano oggettive esigenze tecnico produttive, coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, restando onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata.

Con particolare riferimento al caso di specie, per la Cassazione la società aveva dimostrato che la perdita di commesse avesse riguardato solamente la sede di Palermo.

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