Il dirigente può essere forzato alle dimissioni
Non è idonea a determinare l'annullamento di un accordo transattivo raggiunto con il dirigente la circostanza che la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro prevista in sede negoziale sia intervenuta quale alternativa al prospettato licenziamento ad nutum. Rileva, in questo senso, la Corte di cassazione (sentenza 19974/2017) che la minaccia di applicare nei confronti del dirigente una misura espulsiva non può integrare gli estremi della violenza morale e, quindi, incidere sulla validità dell'accordo di risoluzione consensuale intervenuto tra le parti, in quanto il rapporto del dirigente è assoggettato, fatte salve eventuali eccezioni previste dall'autonomia privata (collettiva o individuale), al regime di libera recedibilità.
Il caso sul quale si è pronunciata la Suprema corte è relativo a un accordo di risoluzione consensuale che il dirigente ha sottoscritto a fronte del versamento da parte della società di un'indennità economica ricollegata alla cessazione volontaria del rapporto di lavoro. Il dirigente ha sostenuto di essere stato indotto alla risoluzione consensuale dietro minaccia di licenziamento ad nutum e, per tale ragione, ha chiesto l'annullamento dell'accordo transattivo e il risarcimento del danno derivante dall'impossibilità di reperire una occupazione alternativa che gli garantisse il medesimo tenore retributivo.
In primo e secondo grado le domande del lavoratore sono state rigettate sul presupposto, tra l'altro, che la società non ha tratto un ingiustificato vantaggio dalla risoluzione consensuale, in quanto il trattamento economico riconosciuto al lavoratore in sede transattiva non è stato inferiore a quello di cui il dirigente avrebbe potuto beneficiare in ipotesi di irrogazione di un licenziamento ingiustificato.
La Cassazione si allinea alla decisione dei giudici di merito e osserva che, in pendenza di un rapporto di lavoro dirigenziale, che si caratterizza per la libera recedibilità, la prospettazione al dirigente, anche in via alternativa rispetto a una risoluzione consensuale, di un provvedimento espulsivo non può integrare gli estremi della violenza morale, i quali presuppongono che sia stato minacciato un diritto di cui il datore di lavoro non può disporre.
La Corte di cassazione rimarca che la risoluzione volontaria del rapporto di lavoro, cui il dipendente si sia predisposto per evitare il licenziamento prefigurato dal datore, risulta viziata da violenza morale solo nel caso in cui sia dimostrata, con onere probatorio a carico del lavoratore, l'insussistenza del diritto medesimo alla irrogazione della misura espulsiva. Solo in tale ipotesi, prosegue la Corte, la prospettazione del licenziamento quale alternativa alla risoluzione consensuale del rapporto concorre a determinare un risultato contra legem, ovvero non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso datoriale.
Sulla scorta di queste considerazioni, la Cassazione conclude che, in pendenza di un contratto di lavoro dirigenziale, la minaccia di licenziamento ad nutum non può essere invocata quale vizio del consenso allo scopo di ottenere l'annullamento di un accordo transattivo che, tra le altre previsioni, includeva la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
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