Inibitoria e penali contro le violazioni
La violazione del patto di non concorrenza da parte del lavoratore costituisce un inadempimento contrattuale che obbliga il prestatore di lavoro a risarcire il danno. Non solo. Durante la vigenza del patto, il datore di lavoro può agire in via d’urgenza nei confronti del lavoratore di fronte al tribunale del lavoro per inibirlo dallo svolgimento dell’attività in concorrenza fino alla cessazione del patto. Sono queste alcune delle conseguenze che il lavoratore potrebbe subire in conseguenza della violazione del patto di non concorrenza regolarmente apposto al contratto.
In caso di violazione del patto di non concorrenza previsto dall’articolo 2125 del Codice civile, infatti, può essere concessa al datore di lavoro la tutela inibitoria per far cessare immediatamente la condotta illecita; non ostano né l’articolo 1453 del Codice civile, che, nell’attribuire al contraente adempiente il potere di chiedere, tra l’altro, l’adempimento del contratto, non distingue tra obbligazioni positive (di facere) e negative (di non facere), né i principi generali del nostro ordinamento, dato che la tutela preventiva, proprio perché idonea ad attribuire agli interessi giuridicamente garantiti uno strumento diretto alla remissione in pristino, è strumento preferibile a quello risarcitorio e indispensabile per dare concretezza al principio costituzionale della tutela giurisdizionale.
Per scoraggiare le violazioni del patto di non concorrenza spesso si inserisce una clausola penale che impone al lavoratore il pagamento di una somma di denaro a seguito dell’inadempimento. Peraltro, questa penale è sovente prevista quando il lavoratore violi l’obbligo contrattualmente assunto di comunicare il nominativo del nuovo datore di lavoro.
Molto discussa è la legittimità della previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro. Sul tema la giurisprudenza di merito si mostra più possibilista consentendo l’esercizio dell’opzione (o del recesso dalla clausola) prima della cessazione del contratto (Tribunale di Milano 15 dicembre 2001). La Cassazione (sentenza 212 dell’8 gennaio 2013) ha invece affermato che questa clausola è nulla per contrasto con norme imperative. Secondo i giudici, infatti, l’obbligo di non concorrenza, anche se opera per il periodo successivo alla fine del rapporto, si perfeziona già con la pattuizione e ciò impedisce al lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo e comprime la sua libertà; ma questa compressione, in base all’articolo 2125 del Codice civile, non può avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore, corrispettivo che finirebbe con l’essere escluso se al datore venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo.
La Cassazione (sentenza 8715 del 2 aprile 2017) ha poi affermato l’illegittimità della clausola di opzione, accedente al patto di non concorrenza, che il lavoratore attribuisce al datore di lavoro come corrispettivo per la formazione professionale ricevuta con la stipula di un contratto formativo (nella specie il contratto di formazione e lavoro). Per i giudici la clausola è nulla in quanto la formazione costituisce già la causa del contratto di lavoro subordinato stipulato, sicché la clausola determina un’illecita sperequazione della posizione delle parti nell’ambito dell’assetto negoziale e la violazione della natura contrattuale dell’opzione.