Secondi lavori, il silenzio della Pa non fa sorgere il legittimo affidamento del dipendente
Nell'impiego pubblico contrattualizzato il principio dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare esclude che l'inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva.
È richiamando questo orientamento, già espresso dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza 8722/2017, che la Corte di cassazione ha negato la richiesta di annullamento del licenziamento intimato dall'Ente strumentale alla Croce Rossa Italiana nei confronti di un medico che aveva svolto, senza preventiva autorizzazione del datore di lavoro, l'incarico di medico penitenziario negli anni 2011 e 2012, ossia nel periodo precedente alla trasformazione dell'ente, fatto che avrebbe poi determinato il venire meno del divieto di cumulo.
Tra i motivi di ricorso presentati dal medico – già soccombente in primo e secondo grado – si colloca anche il contenuto di una missiva inviata da quest'ultimo all'ente nel 2000, da cui avrebbe dovuto desumersi la volontà del datore di lavoro di tollerare lo svolgimento di altri incarichi, considerato che con essa il dipendente aveva fatto riferimento a una incompatibilità che poteva essere già in atto. Con la sentenza 20880/2018, depositata ieri, la Corte, dopo avere dichiarato il motivo inammissibile in quanto il Giudice d'appello – con accertamento di fatto non sindacabile - aveva escluso che il contenuto della missiva consentisse all'ente di avere contezza dello svolgimento di incarichi extralavorativi svolti dal medico, ha comunque approfondito il tema sottolineando come il motivo muova da un presupposto erroneo lì dove si presume di desumere dall'asserita tolleranza del datore di lavoro «l'intervenuta abdicazione da parte di Cri della potestà disciplinare».
In realtà - spiegano i giudici di legittimità – sulla base delle disposizioni del Dlgs 165/2001, come modificato dal Dlgs 150/2009, da cui si desume la doverosità dell'iniziativa disciplinare, emerge che nel rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche l'inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri d'ufficio può solo rilevare, eventualmente, «quale causa di decadenza dall'esercizio dell'azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata». I doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge – conclude la Cassazione – tengono del resto conto della particolare natura del rapporto, che impone all'impiegato «doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interessa pubblico».
In questo contesto «la consapevole violazione di questi doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell'illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta».
Sentenza n. 20880/18 della Corte di cassazione