Cessione d’azienda illegittima, stipendi non compensabili
Le retribuzioni che il lavoratore abbia continuato a percepire dall’impresa cessionaria anche dopo la sentenza che ha accertato l’illegittimità del trasferimento non possono essere portate in detrazione dall’impresa cedente, sulla quale continua a gravare per intero, a seguito dell’ordine giudiziale di riammissione in servizio, l’obbligazione retributiva.
Nell’ambito di un trasferimento d’azienda privo dei presupposti di legittimità previsti dall’articolo 2112 del Codice civile, il rifiuto del soggetto cedente, a seguito dell’offerta da parte del lavoratore, di riceverne le prestazioni, rende la messa a disposizione delle energie lavorative equiparabile alla effettiva utilizzazione dell’attività lavorativa, con il conseguente obbligo di adempiere all’obbligazione retributiva.
La Corte di cassazione ha reso questi importanti principi con la sentenza n. 17785/19 depositata ieri, nella quale ha precisato che al dipendente la retribuzione compete non soltanto se la prestazione lavorativa sia stata effettivamente eseguita, ma anche se il soggetto cedente abbia rifiutato l’offerta del lavoratore al ripristino del rapporto.
Questa lettura, ad avviso dei giudici di legittimità, è coerente con il diritto generale delle obbligazioni, rientrando la prestazione inerente al rapporto di lavoro tra le obbligazioni che hanno ad oggetto prestazioni infungibili, per il cui adempimento è necessaria la collaborazione del creditore. Pertanto, per effetto dell’offerta all’impresa cedente di riattivare la prestazione lavorativa, il lavoratore, che è debitore del facere infungibile, ha posto in essere quanto è necessario, sulla scorta delle regole civilistiche, per far sorgere il suo diritto al pagamento della retribuzione.
La prestazione rifiutata dall’impresa cedente a seguito della pronuncia di illegittimità del trasferimento d’azienda equivale, dunque, alla prestazione effettivamente resa, mantenendo inalterato il diritto del lavoratore a ricevere le retribuzioni.
Né possono essere portate in detrazione, ad avviso della Cassazione, le retribuzioni che il lavoratore abbia continuato a percepire dal soggetto cessionario dopo la sentenza che ha accertato la nullità del trasferimento, in quanto si tratta di due rapporti che rimangono perfettamente separati e distinti. A seguito dell’accertata illegittimità del trasferimento, accanto ad una prestazione resa sul piano materiale per il soggetto cessionario nell’ambito di un rapporto di fatto, si colloca il rapporto giuridicamente vincolante con il soggetto cedente.
Conclude la Corte, sulla scorta di questi presupposti, che l’attività lavorativa resa a beneficio del (non più) cessionario equivale a quella che il dipendente, pure a fronte di un coesistente rapporto di lavoro principale, renda a favore di qualsiasi soggetto terzo. Le retribuzioni percepite in forza dello svolgimento del rapporto di fatto con il non più cessionario, in altre parole, si vanno a cumulare con le retribuzioni che il dipendente ha diritto di percepire dal soggetto cedente a seguito dell’offerta, rimasto ineseguita, alla ricostituzione effettiva del rapporto lavorativo.
La sentenza n. 17785/19 della Corte di cassazione