Convalida delle dimissioni e penale per inadempimento
Non è sostenibile detta ipotesi in quanto le somme in parola consistono in un risarcimento esigibile solo in sede di conciliazione civile. Per ovviare al problema delle dimissioni non convalidate ovvero dell’abbandono del posto di lavoro è ipotizzabile la cessazione del rapporto per “fatti concludenti”. Il Parlamento, mediante il Job Act (Legge delega n. 183/2014) aveva previsto (norma ancora non attuata) la previsione della cessazione per fatti concludenti. In particolare, l’art. 1 comma 6 lett. G) fa riferimento alla “previsione di modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”. Di fatto, il comportamento concludente è una forma di manifestazione tacita della volontà negoziale. Nel caso specifico, a seguito di richiamo ufficiale (mediante raccomandata) del lavoratore in servizio ovvero di invito alla convalida delle dimissioni, qualora lo stesso non ottemperi alle richieste del datore, detto comportamento può ravvisarsi quale manifestazione tacita di recesso unilaterale e volontario dal contratto di lavoro. Tale tesi è stata supportata più volte dalla corte di Cassazione, la quale ha evidenziato il valore del comportamento concludente che deve essere verificato nella sua univocità (sentenza n. 12549/2003). In ogni caso, si evidenzia che poiché non vi è stata formale attuazione della legge delega in parola, tale comportamento da parte del datore di lavoro potrebbe essere contestato dal lavoratore e generare un contenzioso con quest’ultimo.