Previdenza

Dimissioni inefficaci oltre il periodo protetto

Se non vengono convalidate dal servizio ispettivo

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di Giuseppe Bulgarini d'Elci

La norma per cui l'efficacia delle dimissioni rese dalla lavoratrice nel periodo di maternità è sospesa fino a quando non interviene la convalida del servizio ispettivo del ministero del Lavoro continua a trovare applicazione (anche) dopo che il periodo protetto è venuto meno. La sussistenza della convalida va, infatti, rapportata al momento in cui la lavoratrice ha comunicato le dimissioni e rispetto a questa essenziale condizione, la cui mancanza impedisce al recesso di produrre effetto, il successivo venir meno del periodo protetto è un fattore privo di rilevanza. Questa la decisione contenuta nell'ordinanza 5598/2023 della Corte di cassazione.

L'articolo 55, comma 4, del testo unico a sostegno della maternità e paternità prevede, nel testo vigente, che le dimissioni della lavoratrice durante il periodo di gravidanza e della lavoratrice e del lavoratore nei primi tre anni di vita del bambino debbano essere convalidate dal servizio ispettivo ministeriale. Viene precisato, quindi, che alla convalida è sospensivamente condizionata l'efficacia della risoluzione del rapporto.

La Cassazione è stata chiamata a interpretare la norma e ha affermato, sia pure con riferimento al testo previgente, che la finalità della convalida risiede nell'esigenza di tutelare la genuinità e la spontaneità delle dimissioni nel momento stesso in cui la volontà di interrompere il rapporto è stata formulata. Il decorso temporale successivo non è pertinente rispetto a questa valutazione e la circostanza che il periodo protetto sia venuto, nel frattempo, a scadenza è un elemento neutro, come tale inidoneo «ad incidere, ora per allora, sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente».

La Suprema corte rimarca che l'esigenza della convalida delle dimissioni da parte dei servizi ispettivi è di evitare che il datore possa avere approfittato di una situazione psicologica di debolezza del dipendente o che quest'ultimo sia stato influenzato dalla necessità di tutela della prole rispetto alle esigenze di salvaguardia occupazionale. Per queste ragioni, la necessità che intervenga la convalida non si esaurisce con il decorso del fattore tempo e la verifica va, quindi, cristallizzata al momento in cui le dimissioni sono state comunicate.

La decisione ha una sua pregnanza pratica di non poco conto, perché alla lavoratrice dimissionaria nel periodo di maternità, in assenza di convalida, continueranno a essere dovute le retribuzioni (detratto l'eventuale aliunde perceptum) anche dopo la cessazione del periodo protetto.

Il caso sul quale si è pronunciata la Suprema Corte è paradigmatico in tal senso. In primo grado, il datore di lavoro era stato condannato al pagamento delle differenze retributive e del Tfr maturati dalla data delle dimissioni non convalidate alla data in cui era venuto meno il periodo protetto. La Corte d'appello di Roma aveva riformato questo passaggio, disponendo che le differenze retributive competessero anche per il periodo successivo e fino al deposito del ricorso in giudizio, dedotto quanto la lavoratrice aveva percepito da altra occupazione.La Cassazione conferma la sentenza d'appello e rimarca che la “finalità antiabusiva” della norma sarebbe vanificata da una applicazione dell'obbligo della convalida limitato alla durata del periodo protetto.

La conclusione è, dunque, che l'efficacia delle dimissioni resta sospesa fino alla convalida del servizio ispettivo ministeriale e non, invece, solo fino alla cessazione del periodo protetto di astensione per maternità fruito dalla lavoratrice.

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