Contenzioso

Doppia prova per il danno da super lavoro

Il dipendente deve dimostrare il nesso con gli effetti sulla sua salute, l’azienda che non si sono superati limiti sostenibili

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di Giampiero Falasca

Un lavoratore che chiede il risarcimento per i danni dovuti a ritmi di lavoro eccessivi deve provare l'effettivo svolgimento della prestazione oltre i limiti della normale tollerabilità e il collegamento tra questi ritmi e il danno alla salute; spetta invece al datore di lavoro l'onere di dimostrare che la prestazione si è svolta entro limiti sostenibili. Con questo principio di diritto la Corte di cassazione (sentenza 34968/2022) fa ordine sui criteri da applicare nei casi in cui un comportamento illecito del datore di lavoro causa un danno al dipendente.

Il giudizio di merito era stato avviato da un dipendente pubblico che aveva lamentato il fatto di essere sottoposto a ritmi di lavoro insostenibili, dovuti alla mancanza di qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi; questo lavoratore sosteneva di aver maturato prima sintomi depressivi, poi un accentuato malore e, infine, un infarto, tutti eventi riconducibili alle condotte illecite dell'amministrazione.

Sulla base di tale ricostruzione, aveva chiesto il risarcimento del danno biologico subito, per violazione dell'articolo 2087 del Codice civile e delle norme vigente in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, e i danni alla professionalità; in subordine, aveva chiesto che fosse riconosciuta per le sue malattie la causa di servizio, con accertamento del diritto al pagamento del cosiddetto equo indennizzo.

Il Tribunale di Roma e la Corte d'appello hanno rigettato la domanda risarcitoria, mentre hanno riconosciuto il diritto all'equo indennizzo; la domanda principale era stata rigettata per l'assenza di prova delle violazioni che il dipendente ascriveva al datore.

La Cassazione rovescia queste pronunce, partendo dalla considerazione che l'azione del lavoratore rientra nella responsabilità contrattuale, legata all'inadempimento datoriale rispetto all'obbligo, fissato dall'articolo 2087 del Codice civile, di garantire condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti. Il lavoratore che agisca in base a tale norma, prosegue la sentenza, ha l'onere di provare l'esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, ma tale onere va calibrato rispetto ai casi in cui si verifica un “superlavoro” e in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione.

Quando si persegue un risarcimento che derivi dall'attività lavorativa, quello che viene addotto è l'inadempimento datoriale all'obbligo di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di un pregiudizio eccedente l'usura psicofisica connaturata all'esecuzione di quell'attività.In tale contesto, conclude la Corte, un lavoratore che promuove azione di risarcimento del danno secondo l'articolo 2087 del Codice civile, lamentando di aver dovuto accettare un'attività eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, è tenuto solo ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno.

Una volta assolto questo onere, spetta al datore, in ragione del suo dovere di assicurare che l'attività di lavoro sia condotta con modalità che non recano pregiudizio all'integrità fisica e alla personalità morale del dipendente, il compito di dimostrare che la prestazione si è svolta normalmente, con modalità tollerabili, tenuto conto della particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica.

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