È legittimo il licenziamento del lavoratore che autodetermina il periodo di ferie
La Corte di Cassazione con la sentenza del 27 ottobre 2014, n. 22753 è tornata a pronunciarsi in merito alla rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore che autodetermini il periodo di godimento delle ferie, senza aver ottenuto la previa autorizzazione del datore di lavoro, al quale come noto compete il generale potere organizzativo e direttivo dell'impresa. Il caso portato avanti al Tribunale riguardava una dipendente la quale, dopo essersi assentata per malattia, aveva richiesto al datore di lavoro un periodo di ferie allo scadere dell'ultimo certificato, al presunto scopo di evitare il superamento del periodo di comporto, fruendone pur in assenza della autorizzazione datoriale. Il datore di lavoro aveva perseguito con il licenziamento l'assenza della lavoratrice, ritenendola ingiustificata in quanto il periodo fruito non era stato previamente autorizzato, al quale provvedimento era seguito giudizio di impugnazione promosso dalla lavoratrice medesima. Il giudice di prime cure, in accoglimento delle ragioni del datore di lavoro, aveva tuttavia rigettato tale impugnazione. La sentenza, impugnata davanti la Corte di Appello di Torino, veniva confermata in sede di gravame, dove si confermava la legittimità del licenziamento sulla base del presupposto che la lavoratrice non aveva prodotto alcuna giustificazione per la propria assenza, non potendo ritenersi il periodo di ferie fruito valido a tale scopo in assenza di autorizzazione datoriale. La sentenza veniva impugnata in Cassazione.
Motivazioni della sentenza
La ricorrente proponeva impugnazione denunziando, in primo luogo, ai sensi dell'art. 360, n. 5 cod. proc. civ., l'omissione e l'insufficienza o contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio inerente il suo asserito stato confusionale al momento del verificarsi dei fatti di causa. In secondo luogo, la ricorrente rilevava che l'esistenza di ferie residue maturate e non godute rappresentava circostanza idonea giustificarne l'assenza anche sotto il profilo dell'elemento psicologico, in quanto l'esistenza di ferie ancora da fruire avrebbe fatto venire meno l'intenzionalità della condotta con ciò impedendo l'applicabilità della sanzione espulsiva. Sotto lo stesso profilo, la ricorrente denunciava infine la violazione degli artt. 2118 e 2119 cod. civ. ritenendo che il giudice di secondo grado non avesse correttamente valutato l'elemento volitivo della condotta posta a base della sanzione espulsiva atteso lo stato di malattia che minava il suo equilibrio psicofisico.
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato. Secondo la Corte, infatti, la determinazione del periodo feriale spetta unicamente al datore di lavoro dovendosi riconoscere al lavoratore la mera facoltà di indicare il periodo di ferie, entro il quale intende fruire del riposo annuale, mediante espressa richiesta che deve aver luogo anche ove il lavoratore versi in istato di malattia, non potendo avere rilievo a tali fini il fatto che le condizioni psicofisiche del lavoratore possano essere compromesse dalla condizione patologica.
La Corte conferma così il principio di diritto già espresso con precedenti pronunce, affermando “con riferimento all'ipotesi di lavoratore assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio che intenda evitare la perdita del posto di lavoro a seguito dell'esaurimento del periodo di comporto, che lo stesso deve comunque presentare la richiesta di fruizione delle ferie durante il periodo di malattia, affinché il datore di lavoro possa concedere al medesimo di fruire delle ferie durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro e che neanche le condizioni di confusione mentale del lavoratore per effetto della malattia fanno venir meno la necessità di una espressa domanda di fruizione delle ferie, indispensabile a superare il principio di incompatibilità tra godimento delle ferie e malattia”.