Rapporti di lavoro

Esigenze da bilanciare nel whistleblowing

di Enrico Maria Mancuso

Le norme sul whistleblowing (legge 179/2017) segnano senz’altro un passo avanti verso l’affermazione di una cultura imprenditoriale che metta al centro la business integrity e la trasparenza. Al tempo stesso, però, restano diverse criticità applicative su cui si sono esercitati gli interpreti.

La tecnica legislativa è quella di inserire l’incentivazione e la tutela del whistleblowing tra i requisiti espressi di idoneità dei modelli di organizzazione e gestione degli enti previsti dal Dlgs 231/2001, i quali, d’ora in poi, dovranno prevedere uno o più canali comunicativi, idonei a garantire la tutela della riservatezza, che consentano ai dipendenti di presentare segnalazioni concernenti la commissione di fattispecie di reato o violazioni del modello organizzativo di cui siano venuti a conoscenza nello svolgimento delle proprie mansioni.

I modelli dovranno, inoltre, contemplare almeno un canale informatico alternativo di segnalazione, il divieto di atti ritorsivi o discriminatori contro il segnalante e specifiche sanzioni nei confronti di chi violi le misure poste a presidio del segnalante (si veda anche Il Sole 24 Ore del 18 giugno scorso).

A tutela del segnalato, di contro, si prevede l’introduzione di specifiche sanzioni per chi effettui con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelino infondate.

Un primo dubbio applicativo riguarda la scelta di inserire la nuova disciplina nell’ambito dei requisiti di idoneità dei modelli previsti in base al Dlgs 231/2001, la cui adozione è facoltativa. Il problema non riguarda tanto la componente “organizzativa” della disciplina, che può effettivamente trovare, in quella sede, una collocazione tutto sommato ragionevole. A destare perplessità è, piuttosto, il fatto che la stessa scelta riguardi le tutele previste per coloro che, a prescindere dall’intervenuta adozione di un modello, intendano denunciare internamente la realizzazione di condotte illecite. In breve: la nullità degli atti ritorsivi e discriminatori, la possibilità di segnalarne l’adozione all’Ispettorato del lavoro, nonché l’inversione dell’onere della prova in favore del segnalante nelle controversie lavoristiche che ne derivino, devono reputarsi applicabili alle sole segnalazioni effettuate tramite i canali sopra indicati?

Ulteriori incertezze derivano dal silenzio normativo sulle concrete modalità di adempimento dei nuovi oneri organizzativi previsti in materia di whistleblowing, a partire dall’individuazione del destinatario delle segnalazioni. Sul punto, occorre evidenziare i vizi di coordinamento tra gli obblighi informativi già previsti in favore dell’organismo di vigilanza e i nuovi canali comunicativi per le segnalazioni. Vista la sostanziale identità contenutistica dei flussi e il ruolo svolto dall’organismo di vigilanza, appare irragionevole non individuare in quest’ultimo – in particolare nell’ambito di strutture societarie di piccola e media dimensione – l’interlocutore più indicato del whistleblower.

Inoltre, non è chiaro se la riservatezza del segnalante debba essere garantita anche in seno ai flussi informativi già previsti a vantaggio dell’organismo.

Infine, non meno critico è il bilanciamento tra tutela della riservatezza del segnalante e piena esplicazione del diritto di difesa da parte del “segnalato”.

Nel silenzio della norma, sembra opportuna un’estensione analogica degli approdi interpretativi – pressoché obbligati – cui si è pervenuti in ambito pubblico: la riservatezza del segnalante dovrà allora cedere il passo al diritto di difesa del segnalato, nell’ambito dell’eventuale procedimento penale vertente sui fatti oggetto di segnalazione.

Anche in sede disciplinare, però, riservatezza ed esigenze difensive dovranno essere bilanciate in funzione del singolo caso, giungendo a consentire la rivelazione dell’identità del segnalante in tutti i casi in cui ciò sia indispensabile per la difesa dell’incolpato.

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