La nozione di attività giornalistica
L'inefficacia del licenziamento in caso di "codatorialità" del rapporto di lavoro
Nozione di attività giornalistica
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per giusta causa
Distacco, presupposti
L'inefficacia del licenziamento in caso di “codatorialità” del rapporto di lavoro
Cass. Sez. Lav. 9 gennaio 2019, n. 267
Pres. Bronzini; Rel. Ponterio; Ric. M.G.P.I.; Controric. S.A.
Lavoro subordinato – Gruppo di imprese - Codatorialità del rapporto – Criteri - Obbligazione solidale - Licenziamento collettivo - Fattispecie - Inefficacia.
Il vigente ordinamento ammette la possibilità di un'impresa unitaria che alimenta varie attività formalmente affidate a soggetti diversi, senza che ciò comporti necessariamente la negazione della pluralità dei diversi soggetti giuridici; conseguentemente in presenza di determinate circostanze (quali l'unicità della struttura produttiva, l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese, il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario, l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa) e indipendentemente dalla liceità o meno del fine perseguito, può sussistere un rapporto di lavoro che vede nella posizione del lavoratore un'unica persona e nella posizione di datore di lavoro più persone fisiche o giuridiche, con conseguente natura solidale dell'obbligazione di questi ultimi.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo di dichiararsi l'inefficacia del licenziamento intimatogli nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo per aver svolto la prestazione lavorativa, indistintamente, in favore di società facenti parte del medesimo gruppo, e non solo della Società che gli aveva intimato il licenziamento.
La Corte d'appello in parziale riforma della sentenza di primo grado aveva rilevato che il lavoratore fosse formalmente dipendente della società controllata, prospettando però la diretta riferibilità del rapporto di lavoro in capo alla società controllante, sia l'esistenza di una codatorialità. In particolare la Corte di merito aveva ritenuto il rapporto di lavoro in esame imputabile al Gruppo societario e, di conseguenza, ha accertato l'illegittimità del recesso nei confronti del lavoratore, disposto nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, sul rilievo che la individuazione delle esigenze tecnico produttive della procedura collettiva indicate nella comunicazione preventiva ex L. n. 223/91 (riconversione industriale) e l'individuazione dei criteri di scelta erano stati limitati ad una sola realtà aziendale, senza alcun riferimento alle altre società del Gruppo, dove pur continuavano ad essere svolte le funzioni del ricorrente.
La formale datrice di lavoro e la controllante hanno censurato in Cassazione la sentenza per contrarietà all'indirizzo giurisprudenziale che individua un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro «solo ove il frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico funzionale sia frutto di simulazione o preordinazione in frode alla legge». In particolare hanno criticato la sentenza d'appello per aver ravvisato il vincolo di subordinazione senza adeguati riferimenti alla soggezione del lavoratore al potere direttivo e disciplinare della controllante.
La Suprema Corte, ripercorrendo l'evoluzione giurisprudenziale in materia di codatorialità del rapporto di lavoro, ha ricordato che «il collegamento economico-funzionale tra società del medesimo gruppo non comporta il venir meno dell'autonomia delle singole società dotate di personalità giuridica distinta, alle quali continuano a fare capo i rapporti di lavoro del personale in servizio presso le distinte e rispettive imprese», salva la possibilità di individuare un unico centro di imputazione «in presenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori».
Oltre a ciò, la giurisprudenza aveva altresì rilevato che, in presenza di gruppi di imprese genuini, ma fortemente integrati, «è giuridicamente possibile concepire un'impresa unitaria che alimenta varie attività formalmente affidate a soggetti diversi, il che non comporta sempre la necessità di superare lo schermo della persona giuridica, né di negare la pluralità di soggetti, ben potendo esistere un rapporto di lavoro che veda nella posizione del lavoratore un'unica persona e nella posizione del datore di lavoro più persone, rendendo così solidale l'obbligazione del datore di lavoro».
Nella fattispecie in esame, è stato accertato che il dipendente, licenziato nell'ambito di una procedura di mobilità avviata dalla società formalmente datrice di lavoro, «aveva di fatto svolto la prestazione, in modo del tutto indistinto, per le esigenze del gruppo così evidenziando l'esistenza di una stretta integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e di un coordinamento volto a far confluire le attività delle singole imprese verso un interesse comune, anche attraverso l'utilizzo promiscuo dei dipendenti».
La Suprema Corte ha rilevato che la Corte di merito ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali sopra esaminati, ritenendo, quindi, esistente una fattispecie di codatorialità e, di conseguenza, inefficace il licenziamento intimato al dipendente dalla società formalmente datrice di lavoro, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e con condanna in solido delle società convenute (controllante e controllata) al pagamento dell'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del recesso a quella della reintegrazione.
Nozione di attività giornalistica
Cass. Sez. Lav. 14 dicembre 2018, n. 32495
Pres. Bronzini; Rel. Marotta; P.M. Sanlorenzo; Ric. O.G.; Controric. RAI – R.T.I. S.p.A.;
Attività giornalistica – Definizione – Requisiti per la sussistenza – Lavoro intellettuale con carattere informativo – Necessità
Costituisce attività giornalistica – presupposta, ma non definita dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69, sull'ordinamento della professione di giornalista – la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell'evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo. Assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l'inserimento continuativo del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma rigettava la domanda del lavoratore volta ad ottenere la declaratoria della natura giornalistica dell'attività da questi svolta dapprima presso la redazione del CCISS (Centro di Coordinamento Informazioni Sicurezza Stradale), quindi presso la redazione del canale Isoradio, consistente nel fornire agli ascoltatori aggiornamenti sul traffico e sulla viabilità. Ad avviso della Corte territoriale, la redazione presso cui il lavoratore prestava la propria attività, si occupava, in modo assolutamente prevalente, della «predisposizione e lettura dei bollettini radio, cioè dei notiziari informativi sul traffico e sulla viabilità, ciò anche considerando gli spazi dedicati a diversi argomenti che rimanevano marginali». Il lavoratore non svolgeva, quindi, alcuna prestazione di lavoro intellettuale che fosse diretta «alla raccolta, commento ed elaborazione delle notizie che formano oggetto di comunicazione interpersonale», tipica dell'attività giornalistica.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, mentre la società datrice di lavoro resisteva con controricorso.
In particolare, e per quanto qui interessa, con il terzo motivo di ricorso il lavoratore sosteneva che anche la predisposizione e lettura dei bollettini radio costituivano attività giornalistica, non potendo questa essere ravvisata soltanto nell'ambito di radio, telegiornali, o nelle testate tipicamente giornalistiche di informazione.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo di impugnazione ed ha rigettato l'intero ricorso. In particolare, ha sottolineato che, secondo il consolidato orientamento della Corte, «costituisce attività giornalistica – presupposta, ma non definita dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69, sull'ordinamento della professione di giornalista – la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell'evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo; assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l'inserimento continuativo del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa» (in questo senso, Cass. n. 28035 del 16 dicembre 2013 e Cass. n. 17723 del 29 agosto 2011). In tale ambito la Corte ha ribadito anche che ciò che rileva è dunque il «peculiare carattere informativo delle mansioni svolte» che difettava nel caso di specie.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Cass. Sez. Lav. 8 gennaio 2019, n. 181
Pres. Nobile; Rel. Marchese; P.M. Patrone; Ric. H.A. più altri Contr. GI G. S.p.A.;
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Manifesta insussistenza del fatto – Ricorrenza di entrambi i presupposti: insussistenza ragione organizzativa e violazione obbligo di repechage – Necessità – Conseguenze: applicazione commi 4 e 7 art. 18 l. n. 300/1970.
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica della “manifesta insussistenza del fatto”, come previsto dal novellato comma 7 dell'art. 18, l. 300/1970, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. repechage). Conseguentemente, fermo l'onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 5, l. n. 604/1966, la “manifesta insussistenza” deve essere riferita ad una evidente, sul piano probatorio, assenza dei citati presupposti, che consenta di accertare la chiara pretestuosità del recesso.
NOTA
La Corte di appello di Venezia, in parziale accoglimento del reclamo proposto da un gruppo di lavoratori dichiarava illegittimo il licenziamento loro intimato, per difetto del giustificato motivo oggettivo addotto e, in applicazione della tutela prevista dal comma 5 dell'art. 18. l. n. 300/1970, dichiarava risolti i rapporti di lavoro, condannando il datore di lavoro - un'agenzia di somministrazione - al pagamento di un'indennità risarcitoria determinata in misura pari a ventiquattro mensilità. A fondamento della decisione la Corte di merito rilevava che i recessi dovevano ritenersi illegittimi in mancanza di prova della sussistenza della ragione posta a base degli stessi (vale a dire l'impossibilità di reperire alcuna missione lavorativa compatibile con il livello professionale). Era emerso, sul piano probatorio, che la società aveva proceduto ad effettuare assunzioni a termine per coprire posizioni compatibili con quelle dei lavoratori licenziati, conseguentemente pur dovendosi escludere la “manifesta insussistenza” del giustificato motivo oggettivo, doveva trovare applicazione il comma 5 dell'art. 18.
Avverso tale pronuncia i lavoratori propongono ricorso per cassazione denunciando la erroneità della motivazione nella parte in cui, pur ritenendo insussistente il giustificato motivo oggettivo addotto, non aveva applicato il comma 7 dell'art. 18 l. n. 300/1970 e, quindi, non aveva disposto la loro reintegra.
La Suprema Corte respinge il ricorso rilevando che, in linea con quanto di recente affermato dalla sentenza n. 10435 del 2018, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito previsto dall'art. 18, comma 7, l. 300/1970, come novellato dalla l. n. 92/2012 - vale a dire la “manifesta insussistenza del fatto” - concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (c.d. repechage). Pertanto, fermo l'onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 5, l. n. 604/1966, la “manifesta insussistenza” deve essere riferita ad una evidente, sul piano probatorio, assenza dei presupposti, che consenta di accertare la chiara pretestuosità del recesso.
Applicando tali princìpi al caso di specie, a parere della Suprema Corte, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto applicabile il regime indennitario in quanto non era stata ritenuta raggiunta la prova della sussistenza della ragione organizzativa posta alla base del licenziamento (impossibilità di inviare in missione i lavoratori) che, unitamente all'obbligo di repechage, integra il giustificato motivo oggettivo.
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav. 4 gennaio 2019, n. 79
Pres. Napoletano; Rel. Negri Della Torre; Ric. A.G.; Controric. N.B.D.E.E.D.L.S.P.A.;
Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa – Doppio licenziamento –– Ammissibilità – Natura autonoma dei recessi – Requisiti
Il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest'ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente
NOTA
La sentenza in esame ha ad oggetto la legittimità del cd. “doppio licenziamento”, ovverosia del recesso intimato nelle more del giudizio relativo ad un precedente licenziamento.
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Roma aveva rigettato le domande del lavoratore volte ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento allo stesso intimato nell'agosto 2014, nelle more del giudizio instaurato a seguito di un primo recesso del 2011.
Entrambi i recessi erano stati intimati all'esito di procedure disciplinari, ma la Corte d'Appello aveva avuto modo di rilevare come i fatti posti a fondamento degli stessi fossero del tutto diversi. In particolare, il secondo licenziamento era stato motivato dall'assenso dato dal dipendente alla cancellazione di un'ipoteca nonostante il permanere di un ingente debito nei confronti della banca in capo ai clienti, in favore dei quali il lavoratore aveva anche concesso ulteriori mutui e fidi.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore sulla base di due motivi, essenzialmente consistenti nella compressione del diritto di difesa dello stesso poiché non gli era stata messa a disposizione l'intera documentazione rilevante e nella errata esclusione della tardività della contestazione da parte della Corte territoriale.
La Suprema Corte, però, ha ritenuto di non dover procedere all'esame dei motivi appena esposti, ritenendo l'impugnazione inammissibile per carenza di interesse a impugnare del ricorrente in quanto, pochi mesi prima della sentenza in commento, precisamente nel marzo 2018, la stessa Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso del lavoratore relativo al primo recesso intimatogli.
La Cassazione ha, infatti, ribadito un suo consolidato orientamento sul punto secondo il quale «il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest'ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente».
Nel caso di specie, quindi, la Suprema Corte ha, da una parte, confermato che è possibile l'intimazione al lavoratore di due successivi licenziamenti fondati su motivi distinti e, dall'altra, ha rilevato che nel caso di specie il secondo recesso era inidoneo al raggiungimento dello scopo per essere stata accertata in via definitiva l'efficacia del primo recesso.
Distacco, presupposti
Cass. Sez. Lav. 20 dicembre 2018, n. 33021
Pres. Napoletano; Rel. Arienzo; Ric. A.B. S.p.A. e S.C. S.p.A.; Controric. A.A. e altri.
Lavoro - Lavoro subordinato - Comandi e distacchi - Distacco - Presupposti - Gruppi di imprese - Interesse - Presunzione iuris et de iure - Esclusione.
L'art. 30, c. 4-ter, del d.lgs. 276/2003 - allorché stabilisce una presunzione iuris et de iure di legittimità del distacco - si riferisce al distacco tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa.
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i presupposti del distacco genuino nell'ambito di un gruppo di imprese.
Nel caso de quo, due società - A.B. e S.C., facenti parte del medesimo gruppo societario - stipulavano un contratto di appalto e, per l'esecuzione dello stesso, S.C., appaltatrice, distaccava propri dipendenti presso A.B., committente.
I predetti lavoratori contestavano giudizialmente la legittimità del distacco, ottenendo sentenze favorevoli in entrambi i gradi di merito. Segnatamente, la Corte territoriale, a suffragio dell'illiceità del distacco, argomentava che la «funzione dei distaccati, pur assecondando un fine della società distaccante, consistente nell'assicurare una tempestiva rilevazione di eventuali inesattezze o inadempimenti nelle fasi di realizzazione dell'opera, funzionale anche alla tempestività dei pagamenti da parte del committente, non realizzava un interesse “proprio” di S.C., che non era quello di collaborare nella funzione di controllo e di collaudo dell'opera, ma quello di assicurarne la realizzazione in adempimento di un obbligo contrattuale», dimostrando, in definitiva, la «esistenza di interessi in astratto confliggenti, tra controllore e controllato». I Giudici del merito, ad ulteriore comprova della non genuinità del distacco, valorizzavano la circostanza per cui «tutti i costi delle risorse distaccate erano addossati alla committente, con evidente scostamento dallo schema legale del distacco di cui all'art. 30 d.lgs. 276/2003, comma 2, ed essendone la richiesta avvenuta da parte della distaccataria», al pari della richiesta di distacco.
Le società proponevano ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, violazione e falsa applicazione dell'art. 30, c. 4-ter, del d.lgs. 276/2003.
Il Supremo Collegio respinge il ricorso, rammentando, anzitutto, che la norma invocata - allorché stabilisce una presunzione iuris et de iure di legittimità del distacco - si riferisce unicamente «al distacco tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa», non già ad ipotesi - quale quella de qua - di «assenza di un particolare collegamento tra imprese, che non sia riconducibile neanche all'ipotesi di società collegate o controllate in cui il legame sia connotato da meccanismi di controllo specifici (influenza dominante su un'altra società per effetto del possesso della quota maggioritaria di partecipazione nella stessa o per la sussistenza delle condizioni indicate nella norma di cui all'art. 2359 c.c.)». Proprio con riferimento a tali fattispecie - soggiunge la Cassazione - viene in rilievo l'esigenza di verificare la sussistenza in concreto dell'interesse del distaccante, il cui accertamento è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, in forza del principio generale per cui «la dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all'assunzione del lavoratore e l'effettivo beneficiario della prestazione è consentita soltanto a condizione che essa realizzi, per tutta la sua durata, uno specifico interesse imprenditoriale tale da consentirne la qualificazione come atto organizzativo dell'impresa che la dispone, così determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e la conseguente temporaneità del distacco, coincidente con la durata dell'interesse del datore di lavoro allo svolgimento della prestazione del proprio dipendente a favore di un terzo».
In applicazione di siffatti principî, concludono i Giudici di legittimità, appare «logicamente insostenibile che lavoratori della società appaltatrice siano distaccati presso la società committente - deputata al controllo della regolare esecuzione delle opere appaltate - per esigenze di supporto alle attività amministrative e tecniche di cantiere per la verifica della (corretta) realizzazione delle opere appaltate, ed essendo stata realizzata un'operazione priva di ogni temporaneità, anche intesa in senso relativo, con riguardo alla durata e permanenza dell'interesse al distacco».