Licenziamento collettivo limitato ad un unico reparto
Licenziamento disciplinare dell'apprendista
Periodo di comporto e assenza per infortunio sul lavoro
Licenziamento collettivo limitato ad un unico reparto
Malattia professionale e prova del nesso eziologico
Licenziamento disciplinare e proporzionalità della sanzione
Licenziamento disciplinare dell'apprendista
Cass. Sez. Lav. 3 febbraio 2020, n. 2365
Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. M.G.; Contr. O.T.O.C. S.r.l.;
Apprendistato - Licenziamento disciplinare - Procedura ex art. 7 L. 300/1970 - Necessità - Mancata osservanza - Conseguenze - Illegittimità licenziamento
Considerato che non è possibile negare al lavoratore in regime contrattuale di apprendistato né la titolarità del diritto di difendersi, né l'esigenza di tutelare decoro, dignità e immagine, anche professionale, della propria persona, devono ritenersi necessariamente applicabili al rapporto di apprendistato, le garanzie procedimentali previste dall'art. 7 della L. 300/1970 in tutti i casi in cui il datore voglia recedere per ragioni "ontologicamente" disciplinari.
NOTA
La Corte di appello di Catania aveva confermato la pronuncia del giudice di prime cure che aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento subìto, per motivi disciplinari, nel corso del periodo formativo, da un lavoratore assunto nel 2005 con contratto di apprendistato.
In particolare, la Corte territoriale, aveva ritenuto che la specialità del rapporto di lavoro in regime di apprendistato determinava la conseguenza che lo stesso poteva essere interrotto, in caso di giusta causa, non con il licenziamento, ma con un atto di recesso ai sensi dell'art. 2119 c.c., stante l'inapplicabilità a tale rapporto delle tutele previste per il lavoratore dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
Conseguentemente, la Corte di appello aveva ritenuto legittimo, nei termini di cui sopra, l'atto con il quale la società aveva comunicato al lavoratore la disdetta anticipata dal contratto di apprendistato in essere a seguito delle numerose lamentele ricevute dai propri clienti.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione della Corte territoriale sotto svariati profili.
In particolare, per quanto qui rileva, la Suprema Corte ritiene che la Corte territoriale abbia errato nell'escludere, con riferimento al caso di specie, l'applicabilità dell'art. 7 L. 300/1970.
La Cassazione ricorda, infatti, che sul tema si è espressa più volte la Corte Costituzionale (v. sentenze nn. 14/1970 e 169/1973), stabilendo che il contratto di apprendistato è caratterizzato da una funzione formativa che si sovrappone, ma non assorbe, quella del rapporto di lavoro subordinato e che, pertanto, tale rapporto, seppur trovando la propria disciplina nel dettato normativo previsto dalla L. n. 25 del 1995 – applicabile ratione temporis – che lo inquadrava quale rapporto di lavoro a tempo indeterminato bi-fasico, rientra nell'ordinario assetto del rapporto di lavoro subordinato.
Conseguentemente, la Suprema Corte ha ritenuto che non è possibile negare al lavoratore in regime contrattuale di apprendistato, né la titolarità del diritto a difendersi, né l'esigenza di tutelare decoro e dignità professionale della propria persona ed ha affermato, quindi, che si ritengono necessariamente applicabili, anche nella fase formativa del rapporto, le garanzie e le tutele previste dall'art. 7 della L. n. 300/1970.
Conclusivamente, il ricorso del lavoratore viene accolto. La Suprema Corte cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Catania, in diversa composizione.
Periodo di comporto e assenza per infortunio sul lavoro
Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2020, n. 2527
Pres. Patti; Rel. Boghetich; P.M. Mastroberardino; Ric. (omissis) S.p.A.; Controric. (omissis).
Licenziamento individuale - Superamento del periodo di comporto - Assenze per malattia e infortunio - Responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. - Non computabilità
Non sono computabili nel periodo di comporto le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale qualora abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa ed altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale, a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata.
NOTA
Una lavoratrice veniva licenziata per superamento del periodo di comporto essendo rimasta assente dal lavoro dal 28 febbraio 2012 al 5 maggio 2015.
La lavoratrice impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Busto Arsizio che respingeva il ricorso. Appellava quindi la sentenza davanti alla Corte di Appello di Milano che, in riforma della sentenza del Tribunale di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento in quanto riteneva sussistente un nesso causale tra l'infortunio sul lavoro subìto dalla lavoratrice il 27 novembre 2010 e consistito in una caduta sul pavimento del punto vendita ove era adibita, a seguito del quale la lavoratrice aveva riportato una contusione all'anca sinistra, e le assenze del periodo 28 febbraio 2012-19 maggio 2015 conseguenti ad un quadro algodistrofico della caviglia sinistra. La Corte d'Appello quindi condannava la società a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, commi 4 e 7 della L. 300/1970, ed a liquidare, a titolo di risarcimento del danno, 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
La società impugnava la sentenza di secondo grado lamentando che, nel caso di specie, non era stata accertata la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. relativamente all'assenza per infortunio della lavoratrice e che pertanto tale assenza non poteva essere detratta dal periodo di comporto. La società, inoltre, sosteneva che la Corte di Appello aveva ritenuto sussistente il nesso causale tra infortunio sul lavoro ed assenze della lavoratrice, nonostante la diagnosi della patologia alla caviglia della lavoratrice fosse stata effettuata solamente 18 giorni dall'evento-infortunio e in assenza di indizi gravi, precisi e concordanti.
La Suprema Corte nell'accogliere il ricorso della ricorrente, richiama il principio secondo il quale «Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro e malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 cod. civ., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia origini professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista un responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. (Cass. 5413 del 2003 cit; Cass. 22248 del 2004; Cass. 26307 del 2014; Cass. 15972 del 2017; Cass. n. 26496 del 2018)».
La Corte di Cassazione cassa, quindi, la sentenza di secondo grado che si era limitata ad accertare che la patologia alla caviglia sinistra era causalmente e direttamente collegata all'infortunio subito, senza verificare la ricorrenza di una responsabilità datoriale nell'omissione delle misure necessarie per evitare l'evento e, dunque, trascurando il profilo dell'inadempimento datoriale all'obbligo di protezione imposto dall'art. 2087 c.c.
Licenziamento collettivo limitato ad un unico reparto
Cass. Sez. Lav. 13 febbraio 2020, n. 3628
Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Cimmino; Ric. F.E. S.p.A.; Controric. M.P.
Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Ambito di applicazione – Singolo reparto o settore dell'azienda – Ammissibilità – Condizioni – Obiettive esigenze aziendali – Necessità – Fungibilità dei lavoratori – Illegittimità
In tema di licenziamento collettivo, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un reparto o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a tale reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, essendo onere del datore provare il fatto che determina l'oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata. Peraltro, un tale criterio è illegittimo qualora l'individuazione dei lavoratori da licenziare coincida automaticamente con quelli addetti al reparto o al settore da sopprimere, senza ulteriori specificazioni in merito alle mansioni effettivamente svolte da tali dipendenti ed alla loro comparabilità con quelle dei lavoratori addetti ad altri reparti.
Licenziamento collettivo – Comunicazione di avvio della procedura – Finalità – Incompletezza – Accordo sindacale – Effetto sanante dei vizi della procedura – Inidoneità – Controllo giudiziale – Ammissibilità
In tema di collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazione di avvio della procedura ai sensi dell'art. 4, terzo comma, L. 223/1991, ha sia la finalità di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva trattativa per la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il processo decisionale datoriale nei confronti dei lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall'azienda. Sicché il lavoratore è legittimato a far valere l'incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento, posto che la mancata indicazione nella comunicazione di avvio della procedura di tutti gli elementi in essa previsti invalida la procedura e determina l'inefficacia dei licenziamenti. Né un tale vizio è ex se sanato dal raggiungimento di un successivo accordo sindacale, atteso che il giudice di merito può accertare che il sindacato partecipò alla trattativa senza piena consapevolezza dei dati di fatto, spettandogli l'obbligo della verifica in sede di merito dell'effettiva completezza della comunicazione.
NOTA
La Corte d'appello di Firenze, confermando la sentenza di primo grado, accertava l'illegittimità del licenziamento intimato ad un dipendente all'esito di una procedura di licenziamento collettivo che aveva interessato esclusivamente gli addetti al reparto aziendale dismesso, senza che vi fosse – neppure nella comunicazione di avvio della procedura – alcuna specifica descrizione delle attività svolte in tale reparto né alcun riferimento all'infungibilità tra il personale ad esso addetto e quello occupato in altri settori aziendali.
Avverso tale pronuncia, il datore di lavoro propone ricorso per cassazione, denunciando, inter alia, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. nell'interpretazione degli accordi sindacali, nonché degli artt. 4, commi quinto e dodicesimo, e 5, primo comma, L. 223/1991, poiché essi non prevedono alcun onere di motivazione in ordine all'infungibilità dei lavoratori interessati dagli esuberi e poiché l'accordo sindacale prevedeva espressamente l'efficacia sanante dello stesso anche in relazione ad eventuali vizi della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo.
Quanto all'individuazione della platea dei lavoratori da licenziare, la Suprema Corte conferma il proprio consolidato orientamento secondo cui in tema di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore aziendale, la platea dei lavoratori interessati dagli esuberi può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore soltanto sulla base di oggettive esigenze aziendali. In tal caso, è onere del datore di lavoro provare le ragioni che giustificano tale limitazione e, a tal fine, non può essere ritenuta legittima la scelta dei lavoratori solo perché impiegati nel reparto o settore ristrutturato, senza che venga valutato il possesso di professionalità equivalenti a quelle di lavoratori addetti ad altri reparti (in senso conforme, Cass. 3 maggio 2011, n. 9711; Cass. 12 gennaio 2015, n. 203; Cass. 1 agosto 2017, n. 19105; Cass. 24 giugno 2019, n. 16834).
Tali principi erano stati correttamente applicati dalla Corte d'appello, che aveva rilevato come né nella comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo né nel successivo accordo sindacale fossero state esaminate le mansioni effettivamente svolte dai dipendenti interessati dai licenziamenti al fine di verificare il possesso di professionalità equivalenti a quelle dei lavoratori addetti ad altri reparti o settori aziendali.
Peraltro, prosegue la Corte di cassazione, il fatto che in sede di consultazione sindacale non fosse stata fatta alcuna precisazione in merito alla peculiarità delle mansioni svolte dagli addetti al reparto interessato dalla ristrutturazione e/o da quelli addetti ad altri reparti esclude l'efficacia sanante dell'accordo sindacale all'esito della procedura. Infatti, la giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, L. 223/1991, ha la finalità di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva trattativa per la riduzione del personale, nonché quella di rendere trasparente il processo decisionale datoriale nei confronti dei lavoratori interessati dai licenziamenti. Pertanto, questi ultimi sono legittimati a far valere l'incompletezza della comunicazione in oggetto quale vizio del licenziamento, posto che tale lacuna invalida la procedura di licenziamento collettivo e determina l'inefficacia dei licenziamenti. In ogni caso, l'incompletezza della comunicazione ex art. 4, L. 223/1991, non può essere sanata ex se neppure con il raggiungimento di un accordo sindacale, potendo il giudice di merito accertare che il sindacato, pur avendo partecipato alla trattativa, non abbia avuto piena consapevolezza delle ragioni di fatto poste a fondamento dei licenziamenti (in senso conforme, Cass. 11 luglio 2007, n. 15479; Cass. 6 aprile 2012, n. 5582; Cass. 12 ottobre 2015, n. 20436; Cass. 29 marzo 2018, n. 7837).
Anche questo profilo era stato correttamente considerato dalla Corte d'appello di Firenze, che aveva negato l'efficacia sanante dell'accordo sindacale raggiunto tra le parti all'esito della procedura di licenziamento collettivo in ragione dell'incompletezza della comunicazione ex art. 4, L. 223/1991.
Malattia professionale e prova del nesso eziologico
Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2020, n. 2523
Pres. Manna; Rel. Ghinoy; P.M. Mastroberardino; Ric. D.L.C.; Controric. I.N.A.I.L.
Malattia professionale - Malattie tabellate - Esposizione all'amianto - Presunzione eziologia professionale - Sussiste - Prova contraria a carico dell'INAIL - Sussiste
L'inclusione nella tabella INAIL sia della lavorazione svolta che della malattia contratta (purché insorta entro il periodo massimo di indennizzabilità eventualmente previsto) comporta l'applicazione della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall'assicurato, il quale dovrà solo dimostrare lo svolgimento della lavorazione indicata in tabella e la malattia - ivi indicata - contratta per essere esonerato dalla prova dell'esistenza del nesso di causalità tra l'una e l'altra, avendo l'ordinamento già compiuto la correlazione causale tra i due termini.
Il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda proposta degli eredi del de cuius all'INAIL di erogazione della rendita ai superstiti, in ragione della derivazione causale della malattia mortale del de cuius dall'esposizione dello stesso all'amianto durante la propria vita professionale.
La Corte territoriale riformava la sentenza di primo grado ritenendo che non fosse stato provato che l'esposizione all'amianto avesse avuto efficacia causale esclusiva o prevalente nell'insorgere del carcinoma polmonare, patologia che aveva condotto al decesso del de cuius.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso un erede del de cuius, deducendo che la prova del nesso eziologico non fosse necessaria, rientrando il carcinoma polmonare tra le malattie previste dall'art. 3 del T.U. n. 1124/1965, (c.d. malattie tabellate).
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando l'importanza della distinzione tra malattie tabellate e non tabellate ai fini della prova del nesso di causalità. Ribadendo quanto già espresso dalle Sezioni Unite, la Suprema Corte ha chiarito che «l'inclusione nella tabella sia della lavorazione svolta che della malattia contratta (purchè insorta entro il periodo massimo di indennizzabilità eventualmente previsto) comporta l'applicazione della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall'assicurato. In tal caso, dunque, al lavoratore è sufficiente dimostrare lo svolgimento professionale della lavorazione indicata in tabella e di essere affetto dalla malattia ivi prevista, per essere esonerato dalla prova dell'esistenza del nesso di causalità tra l'una e l'altra, avendo l'ordinamento già compiuto la correlazione causale tra i due termini».
Il giudice di legittimità ha dunque chiarito che il sistema tabellare esonera il lavoratore dalla prova del nesso di causalità tra la lavorazione tabellata e la malattia, ma non dalla prova dell'adibizione professionale ad una lavorazione che sia ritenuta idonea, secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica, a provocare la malattia. Solamente in tal caso, infatti, opera la presunzione di eziologia professionale.
Tale presunzione – specifica ulteriormente la Suprema Corte – non è assoluta, potendo l'INAIL fornire prova contraria dimostrando, ad esempio, l'esistenza di un fattore extralavorativo che potrebbe aver causato la malattia che, tuttavia, deve aver avuto efficacia causale esclusiva nell'insorgenza della patologia.
Nel caso di specie, la Corte territoriale, pur ritenendo documentata l'esposizione all'amianto del lavoratore, aveva posto a carico dei suoi eredi – anziché dell'INAIL - l'onere di dimostrare l'esclusione di altre cause dirette della malattia, violando dunque i principi espressi dalla Suprema Corte in materia di onere della prova nel caso di malattie tabellate.
Licenziamento disciplinare e proporzionalità della sanzione
Cass. Sez. Lav. 28 gennaio 2020, n. 1891
Pres. Patti; Rel. Boghetich; P.M. Mastrobernardino; Ric. C.C.; Controric. F. S.p.A.
Licenziamento disciplinare – Art. 18 legge 300/1970 post riforma legge 92/2012 - Tipizzazione della contrattazione collettiva – Fattispecie punita con sanzione conservativa - Tutela reale - Sussiste - Difetto di proporzionalità - Tutela indennitaria forte - Sussiste
L'accesso alla tutela reale di cui all'articolo 18, comma quarto, della legge 300/70, divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla legge 92/2012, presuppone una valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, mentre, laddove il contratto collettivo nazionale rimetta al giudice la valutazione dell'esistenza di un simile rapporto di proporzione in relazione al contesto, al lavoratore spetta la tutela indennitaria di cui all`articolo 18, comma quinto, della legge 300/70.
NOTA
Nel caso in esame un lavoratore veniva licenziato per giusta causa dopo essere stato sorpreso a dormire in una zona appartata durante l'orario di lavoro ed essersi successivamente allontanato - prima della fine del proprio turno e senza giustificazione - dalla postazione di lavoro.
Il Tribunale, in fase sommaria e in sede di opposizione, dichiarava illegittimo il licenziamento condannando la società alla reintegra del lavoratore ma la Corte di appello, in sede di reclamo, riformava la sentenza condannando la società al pagamento dell'indennità economica prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5.
Avverso la sentenza della Corte proponeva ricorso il lavoratore contestando l'assenza di proporzione tra il fatto contestato e la sanzione applicata anche alla luce delle previsioni del CCNL applicato.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato, prevede l'applicazione della sanzione della reintegrazione solo nell'ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Fuori da tale ipotesi, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" e da diritto al dipendente di ricevere l'indennità ai sensi dell'articolo 18, comma 5. In altre parole, insiste la Suprema Corte, la novella del 2012 ha introdotto una graduazione delle ipotesi di illegittimità della sanzione espulsiva dettata da motivi disciplinari, facendo corrispondere a quelle di maggiore evidenza la sanzione della reintegrazione e limitando la tutela risarcitoria all'ipotesi del difetto di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del contratto collettivo.
Con particolare riguardo al caso di specie, la Cassazione pur ritenendo la misura disciplinare adottata dalla società sproporzionata rispetto all'addebito, ne escludeva la punibilità con la sanzione conservativa prevista dal CCNL (ossia con la multa o la sospensione per il lavoratore che senza giustificato motivo ritardi l'inizio del lavoro, lo sospenda o ne anticipi la cessazione), per avere il lavoratore tenuto un comportamento diverso da quelli oggetto di previsione collettiva sanzionata in via conservativa, ovvero di occultamento in luogo appartato per mettersi a dormire, quando invece lo si credeva intento a lavorare, così aggravando l'inadempimento.