Licenziamento ritorsivo nullo anche in presenza di una giusta causa
Per la Cassazione è in capo al lavoratore l’onere dimostrare che l'intento ritorsivo ha determinato in maniera esclusiva il recesso datoriale
Il nostro ordinamento giuslavoristico sanziona con la nullità il licenziamento cosiddetto ritorsivo, ovverosia quello che scaturisce da un comportamento legittimo del lavoratore, che viene ingiustamente e arbitrariamente punito.
La nullità, peraltro, può sussistere anche se in astratto il licenziamento avrebbe potuto essere legittimo e a dirlo è la Corte di cassazione (sezione lavoro, 7 marzo 2023, n. 6838).
I giudici, infatti, hanno evidenziato che la domanda di nullità di un licenziamento comminato per ritorsione, argomentata facendo leva sulla sussistenza di un motivo illecito alla sua base, può essere accolta ogniqualvolta si riesca a dimostrare che l'intento ritorsivo abbia determinato in maniera esclusiva la volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro, pur in presenza di un altro fatto rilevante che avrebbe di per sé potuto rappresentare una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento.
In sostanza, se la ritorsione è stata il motivo determinate del recesso, per considerare quest'ultimo nullo non è necessario comparare le motivazioni riconducibili all'intento ritorsivo con quelle connesse ad altri fattori che, oggettivamente, avrebbero potuto giustificare un licenziamento.
In questo caso, tuttavia, non opera l'inversione dell'onere probatorio prevista dall'articolo 5 della legge 604/1966 e di conseguenza, sulla base della regola generale posta dall'articolo 2697 del Codice civile, è il lavoratore che deve dimostrare la prevalenza dell'intento ritorsivo. In ogni caso, può farlo anche mediante presunzioni, il che vuol dire che la ritorsione può essere provata utilizzando tutti gli elementi acquisiti in giudizio e anche quelli che sono già stati considerati per escludere la sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento.
Ciò, tuttavia, non esenta il datore di lavoro dal provare l'esistenza di un'eventuale giusta causa o giustificato motivo; se tale prova è fornita, almeno in apparenza, il lavoratore deve dimostrare l'intento ritorsivo e che l'unico e determinante motivo di recesso è illecito.
La Corte di cassazione, sempre in materia di licenziamento ritorsivo, ha inoltre ribadito che l'inapplicabilità dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle organizzazioni di tendenza è un privilegio che non si estende fino a escludere l'applicazione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o di rappresaglia. In altre parole, anche laddove il datore di lavoro sia un'organizzazione di tendenza, il licenziamento per ritorsione determina sempre la reintegra del lavoratore, a prescindere dal numero di dipendenti dell'ente o dalla categoria di appartenenza del dipendente interessato (e quindi anche se si tratta di dirigenti).