Contenzioso

Malattia professionale provata anche sulla base di presunzioni semplici

Confermato dalla Cassazione l’orientamento secondo cui la derivazione dell’infezione virale non richiede la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro

di Marco Tesoro

Nel caso esaminato dalla sentenza della Corte di cassazione 29435/2022 del 10 ottobre scorso, un infermiere operante all'interno di una Rsa chiedeva il riconoscimento della copertura Inail e del conseguente indennizzo a seguito della contrazione del virus hcv (epatite C).

Il Tribunale rigettava la domanda con sentenza confermata dalla Corte di appello che, partendo dalla possibile origine plurifattoriale della malattia, contestava al lavoratore il mancato assolvimento dell'onere, a suo carico, di provare la causa di lavoro o la speciale nocività dell'ambiente lavorativo, essendo necessaria la «certa individuazione del fatto origine della malattia», anche alla luce della sua pregressa malattia (epatite B).

Il lavoratore, infatti, non aveva citato alcun evento specifico avvenuto durante lo svolgimento delle attività lavorative, ad esempio punture accidentali, ma si era limitato a elencare le mansioni svolte in via ordinaria, quali l'assistenza a pazienti anziani, epatopatici, spesso con piaghe da decubito.

Né, sempre secondo la corte territoriale, la prova poteva considerarsi fornita in virtù del verbale di visita della Commissione medica ospedaliera – formato in sede di procedimento per l'indennizzo in base alla legge 210/1992 e che aveva acclarato l'origine lavorativa della malattia – trattandosi di un giudizio che «non rende noti gli elementi fattuali su cui è basato».

L'infermiere ricorreva in cassazione, sostenendo che l'Inail non avrebbe potuto disconoscere gli effetti dell'accertamento della Commissione medica e contestando l'attribuzione dell'onere di fornire la prova certa dell'origine lavorativa della malattia, trattandosi di malattia tabellata, pur multifattoriale. Infine, per il ricorrente, il giudizio di ragionevole probabilità può essere sviluppato anche in base alla compatibilità della malattia con la tipologia delle mansioni svolte e per l'assenza di altri fattori extra-professionali.

Per la Cassazione, il verbale della Commissione medica non ha alcun effetto vincolante nei confronti dell'Inail, in quanto soggetto autonomo rispetto al ministero della Salute, né può considerarsi ragione di presunzione legale di origine lavorativa il mero inserimento dell'epatite C nella tabella di cui all'articolo 139 del Dpr 1124/1965, nel gruppo delle malattie per le quali vi è elevata probabilità di origine professionale.

Tuttavia, gli Ermellini contestano il ragionamento della Corte di appello nel punto in cui ritiene necessaria la prova certa dell'evento infettante in occasione di lavoro. Sul punto, i giudici di legittimità richiamano il proprio consolidato orientamento per cui «nell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l'azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell'organismo umano, ne determinino l'alterazione dell'equilibrio anatomo - fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell'infezione», essendo sufficiente a tal proposito anche la prova fornita mediante presunzioni semplici.

Pertanto, i giudici cassano la sentenza impugnata con rinvio alla medesima Corte di appello, affinché effettui l'accertamento richiesto ricostruendo in via probabilistica l'esistenza o meno del nesso causale tra la malattia denunciata e l'attività professionale svolta, «senza necessità di riscontrare l'esistenza di uno specifico episodio o contatto infettante in occasione di lavoro».

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