Contrattazione

Modifica di ruoli: è preferibile l’accordo in una sede protetta

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di Marcello Floris

L’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori è stata oggetto di una vastissima elaborazione giurisprudenziale e di modifiche nella regolamentazione. L’articolo 2103 del Codice civile, nella formulazione originaria, disponeva che il prestatore di lavoro dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avesse successivamente conseguito o equivalenti alle ultime poi svolte.

Nel 2015 la norma è cambiata: resta il divieto di demansionamento, con l’eccezione delle ipotesi di modifica degli assetti aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso, e nei casi previsti dai contratti collettivi.

In entrambe i casi, le nuove mansioni possono appartenere al livello di inquadramento immediatamente inferiore nella classificazione contrattuale, a condizione che rientrino nella stessa categoria legale. Il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo, eccettuati gli elementi collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. È stata quindi introdotta una ipotesi di jus variandi, cioè di possibilità per il datore di cambiare i compiti del lavoratore, non ammessa prima del 2015.

Un’ipotesi attuale in questi tempi è quella dei cosiddetti accordi di demansionamento. Il datore di lavoro e il lavoratore possono accordarsi per modificare in senso peggiorativo le mansioni, il livello di inquadramento e la retribuzione. Questo genere di modifica è fattibile per accordo delle parti e trova spazio soprattutto quando è l’unica alternativa al licenziamento. Quando si prospetta un recesso dovuto alla soppressione della posizione lavorativa occupata dal lavoratore, il datore può quindi proporre al dipendente di svolgere mansioni inferiori, cui normalmente si accompagna una riduzione della retribuzione. Il lavoratore resta libero di declinare l’offerta ma, se così fa, rischia di essere licenziato e il datore avrà un argomento in più per dimostrare di aver fatto tutto quanto in suo potere per salvaguardare il posto di lavoro e aver osservato gli obblighi di buona fede e correttezza.

Per la giurisprudenza l’accordo di demansionamento non è un requisito per la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendo sufficiente che il datore prospetti la possibilità: «per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale» (Cassazione, 4509/2016 e 23698/2015).

È assolutamente consigliabile sottoscrivere l’accordo di demansionamento davanti a sedi protette, cioè davanti a un giudice o alla commissione di conciliazione istituita presso l’Ispettorato territoriale del lavoro, o presso le organizzazioni sindacali o le associazioni datoriali. Questo riduce infatti il rischio che il lavoratore possa impugnare poi l’accordo nel termine di sei mesi previsto dall’articolo 2113 del Codice civile, sostenendo che abbia a oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili di legge.

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