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Molestie sul luogo di lavoro, il risarcimento del danno

Il Tribunale di Rimini ha condannato un Ente territoriale della Provincia riminese a risarcire a una dipendente un danno da discriminazione pari a quindicimila euro, perché vittima di molestie subite sul luogo di lavoro

di AGI a cura di Anna Danesi

In anteprima da Guida al Lavoro n. 49 del 9 dicembre 2022

Una sentenza del Tribunale di Rimini (numero 181 del 10 novembre 2022; Giudice del Lavoro Lucio Ardigò) interessante, e da approfondire, sul tema delle molestie.

Il fatto
I fatti, in sintesi: nel corso di un acceso diverbio tra una collega e un collega di lavoro, quest'ultimo assumeva comportamenti molesti a connotazione sessuale nei confronti della lavoratrice. A seguito della denuncia di molestie effettuata dalla vittima all'Ente di appartenenza, il datore di lavoro raccoglieva informazioni sommarie e veniva aperto un procedimento disciplinare a carico di entrambi i dipendenti comunali, sia quindi a carico della vittima sia del collega (nello specifico si addebitava alla ricorrente il fatto di aver presentato una denuncia nei confronti del collega che risultava provata in parte ma non integralmente e di aver comunque preso parte alla lite con toni accesi).

I motivi della decisione
Il Tribunale, accertato che il comportamento tenuto dal collega della ricorrente configurava la fattispecie delle molestie sessuali ex art. 26, 1 comma, del Dlgs 198/2006 ravvisava una "duplice" responsabilità dell'Ente: il Comune resistente veniva infatti ritenuto responsabile non solo ai sensi dell'art 2087 c.c per non aver posto in essere tutte le misure necessarie a prevenire le molestie del dipendente, ma anche ai sensi dell'art. 26, comma 3, del citato Dlgs per aver il datore di lavoro sottoposto la denunciante a procedimento disciplinare. L'art.26, 3 comma, del D.lgs 198/2006 stabilisce infatti che "…sono considerati, altresì, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne".
A fronte infatti della denuncia sporta dalla ricorrente, il datore di lavoro minimizzava la segnalazione ricevuta dalla vittima ed equiparava a livello disciplinare il comportamento della lavoratrice a quello del collega responsabile della molestia, tanto da adottare nei confronti di entrambi la sanzione del rimprovero scritto. Il Giudice rileva invece come l'art. 59 del CCNL per il personale del Comparto Enti Locali (applicato nel caso in esame) preveda espressamente la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di undici giorni a un massimo di sei mesi nel caso di comportamenti configuranti molestie sessuali. Nonostante ciò, nell'ambito del procedimento disciplinare attivato nei confronti del dipendente responsabile del comportamento molesto, l'Ente non contestava tale specifico profilo, sebbene la molestia fosse emersa già dalle informazioni assunte prima della formale apertura del procedimento disciplinare.
Si legge nella sentenza che "il Comune ha omesso di verificare in modo preciso ed adeguato i fatti occorsi tra la ricorrente e il proprio collega, compiendo un'istruttoria incompleta ed approssimativa, concentrandosi esclusivamente sulla discussione intercorsa tra i due e considerando irrilevanti i comportamenti sessualmente molesti compiuti" dal dipendente nei confronti della collega. In applicazione del disposto ex art. 26, comma 3, del D.lgs 198/2006 nonché dell'art. 2087 c.c e dell'art. 57 del Dlgs 165/2001 è stata quindi accertata la responsabilità dell'Ente sotto il duplice profilo di cui si è detto.
Nel presente giudizio è inoltre intervenuta ex art. 419 cpc ed ex art. 36 D.lgs 198/2006 la Consigliera di Parità provinciale competente per territorio, sostenendo le ragioni della ricorrente. Nella sentenza in commento sono stati considerati anche i rilievi posti dalla Consigliera di Parità, idonei – a detta del Tribunale – a confermare le carenze del Comune in merito alla conoscenza della normativa antidiscriminatoria, tra le quali:
(i) l'assenza nel DVR di qualsivoglia riferimento al rischio di discriminazioni di genere;
(ii) l'assenza nei Piani Triennali di Azioni Positive (che gli enti pubblici sono obbligati a redigere ex art. 48 del D.lgs 198/2006) di qualsivoglia riferimento alla questione verificatasi all'interno dell'Ente e/o l'assenza di qualsivoglia misura atta a rimuovere tali situazioni.
Tali ulteriori elementi hanno contribuito ad acclarare la responsabilità dell'Ente consistente anche nell'aver tenuto una condotta "superficiale, ostracizzante e approssimativa e, in ultima analisi, discriminatoria".

Il risarcimento del danno
Accertato il comportamento molesto e la responsabilità dell'Ente, il Tribunale ha poi provveduto ad accertare e liquidare il danno in applicazione dei principi sanciti dalle direttive europee sul tema e dalla normativa nazionale.
In particolare, la pronuncia in commento si riporta alla Sentenza della Cassazione a S.U. m. 26972/2008 in tema di risarcimento del danno non patrimoniale determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, ed individua negli art. 37 e 38 del Dlgs 198/2006 la fonte legislativa della risarcibilità del danno da discriminazione e negli art. 2087 c.c e nell'art. 57 del Dlgs 165/2001 l'imputabilità al datore di lavoro di detto danno. Sulla base di tali argomentazioni si afferma quindi la risarcibilità del danno non patrimoniale patito dalla ricorrente a seguito dell'accertata condotta discriminatoria. Quanto dunque all'an si legge: "Le condotte come sopra descritte realizzano condizioni di fatto obiettivamente idonee a determinare nella destinataria delle condotte medesime, se non necessariamente l'insorgenza di una condizione qualificabile come malattia, comunque la causazione di una sofferenza la cui esistenza nell'an è immediatamente apprezzabile in dipendenza della natura dei beni lesi e delle caratteristiche della violazione". L'esistenza del danno, sebbene non venga qualificato quale danno in re ipsa, viene tuttavia fatta discendere direttamente dalle condotte poste in essere e qualificate come molestie che, per come si sono verificate, hanno prodotto per comune esperienza una sofferenza nella vittima che certamente incide quale lesione della dignità personale (ex artt. 2, 4 e 32 Cost).
Accertata dunque la sussistenza del danno, per la determinazione del quantum il Giudice ritiene fondamentale un'interpretazione degli artt. 37 e 38 del D.lgs 198/2006 che sia conforme alle direttive europee in punto di risarcimento del danno da discriminazione.
In particolare, viene richiamato l'art. 18 della Direttiva 2006/54 che invita gli stati membri, in caso di danno da discriminazione, ad adottare le misure necessarie per garantire "un indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito…". Da un lato, quindi, la Sentenza in commento fa riferimento alla fonte sovranazionale per richiamare un risarcimento del danno quale strumento rimediale che abbia i requisiti di effettività e quindi debba essere oltre che proporzionato anche dissuasivo; dall'altro, richiamando la Sentenza a SU della Cassazione n. 16601 del 5 luglio 2017, riconosce l'esistenza nel nostro ordinamento di una funzione "polifunzionale" del risarcimento del danno che ammetta, oltre alla primaria funzione compensativa riparatoria, anche una funzione preventiva (o deterrente o dissuasiva) e sanzionatorio-punitiva. Tale impostazione troverebbe poi conferma nella L. 4/2021 di ratifica della Convenzione OIL 190/2020 che "ha previsto espressamente l'istituzione di misure sanzionatorie nei confronti degli autori del comportamento discriminatorio (artt. 4 e 19)".
Sulla base di tali considerazioni, il Giudice aderisce alla prospettazione operata da parte ricorrente adottando quale criterio di quantificazione le Tabelle del Tribunale di Milano e moltiplicando il valore di 99,00 euro (corrispondente ad un giorno di inabilità assoluta) per il numero di giorni di durata del procedimento disciplinare a carico della ricorrente e del periodo di malattia; il danno così liquidato in via equitativa pari alla somma di 15.000 euro a carico dell'Ente viene ritenuta dal Tribunale "equa in considerazione della natura pubblica del datore di lavoro; della inescusabile superficialità che ha connotato la condotta complessiva del Comune nonostante la molestia sessuale subita da una propria lavoratrice; dalla gravità del comportamento del Comune stesso che, a fronte della denuncia di molestia sessuale, ha reagito aprendo un procedimento disciplinare, discutibile sia nei modi sia nei contenuti, nei confronti della ricorrente; della posizione di debolezza della ricorrente in quanto lavoratrice subordinata".
Sull'adozione delle Tabelle del Tribunale di Milano quale criterio di quantificazione del danno da discriminazione da determinarsi in via equitativa, si segnala l'esistenza di altri precedenti, fra i quali Tribunale di Milano n. 904/2021 del 30 marzo 2021.
Sulla quantificazione del danno da discriminazione, che avviene in via equitativa, appare infatti utile cercare dei criteri per la determinazione del danno che possano indirizzare il Giudicante: il riferimento alla retribuzione della vittima – che viene anche dalla giurisprudenza utilizzato per esempio nei casi di danno provocato dal demansionamento – appare in questi casi non appropriato poiché porterebbe all'aberrante conseguenza di valutare il disvalore di un comportamento discriminatorio e la sofferenza patita dalla vittima più o meno grave a seconda del valore economico della prestazione resa.
Quindi, nella determinazione del danno la sentenza in commento si è attenuta ai criteri che sembrano allo stato quelli più idonei e utilizzati anche da altre pronunce di merito in tema di molestie.