Contenzioso

Nel recesso per motivi economici non basta che l’azienda dimostri la crisi

di Angelina Turco

La Cassazione, in tema di legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, abbraccia l’orientamento giurisprudenziale per cui il datore di lavoro non deve provare l’andamento economico negativo dell'azienda, ma le ragioni produttive e organizzative alla base della soppressione della posizione lavorativa.
La Corte è stata chiamata a decidere sul ricorso di una lavoratrice contro la sentenza della Corte di appello che aveva confermato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto aveva ritenuto che sussistesse una crisi economica dell'azienda, non smentita dalla documentazione della lavoratrice, che comportò uno snellimento della struttura e soppressione del posto di lavoro, con accorpamento a livello centrale delle relative funzioni, e ritenendo altresì provata l'insussistenza di altre posizioni lavorative utili in azienda.

La Sentenza della Corte di Cassazione del 20 febbraio 2019, n. 4946, si apre con un appunto molto interessante fatto ai colleghi della Corte territoriale, nel quale si rileva che la sentenza impugnata risulta per lo più impegnata a confutare argomenti e documenti proposti dalla ricorrente circa le condizioni economiche della società al momento del licenziamento, piuttosto che accertare gli effettivi requisiti che, secondo l'orientamento condiviso dalla sentenza in commento, legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: "ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa" (tra le altre Cass. n. 24882/2017). La prova della sussistenza di tali ragioni grava interamente sul datore di lavoro, secondo quanto stabilito dall'art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Poiché l'azienda non ha fornito elementi adeguati all'accertamento delle suddette ragioni produttive organizzative la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata.

La sentenza in commento ricorda anche che, con riferimento all'obbligo di repechage, non è legittimo far gravare sulla lavoratrice l'onere, né di indicare, né di dimostrare, l'esistenza nell'impresa di altre posizioni lavorative in cui la ricorrente avrebbe potuto essere utilmente ricollocata. Tale onere grava infatti solo ed esclusivamente sul datore di lavoro (tra le altre Cass. n. 24882/20117).

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