Niente repêchage «a termine»
È esclusa la violazione del repêchage nel caso di assunzione a termine coeva al licenziamento; non è necessario che al responsabile delle risorse umane siano delegati poteri per gli atti che riguardano i dipendenti.
Queste le due decisioni contenute nella sentenza 909/2017, del 7 aprile 2017, pronunciata dalla Corte di appello di Milano (presidente relatore Chiarina Sala). Al di là dei due temi qui in esame, le 31 pagine fitte di sentenza sono una epitome di quante e quali questioni possano dover essere dipanate per poter dirimere un caso di licenziamento per motivi economici.
Per quanto riguarda il repêchage, in caso di recesso per ragioni economiche, l’azienda deve dimostrare di non aver potuto ricollocare il dipendente licenziato (dimostrando di non aver assunto altri lavoratori in ruoli compatibili con il profilo di quello licenziato).
Nel caso specifico, però, la Corte d’appello, nell’esaminare i nuovi ingressi in azienda intervenuti nei mesi vicini alla data del recesso, ha ritenuto di escludere che l’obbligo di repêchage fosse stato violato da una assunzione a termine per sostituzione, in quanto «la diversità di inquadramento…e la differente tipologia del contratto (se a termine) non consentono di effettuare utili raffronti per concludere su una concreta possibilità di ricollocazione» del dipendente licenziato.
Tale orientamento non risulta avere precedenti in termini nella giurisprudenza di legittimità, ma era stato proposto anche dal tribunale di Roma, con ordinanza del 27 ottobre 2014. In quel caso era stata ritenuta irrilevante una assunzione a tempo determinato effettuata un mese prima del recesso, con inquadramento analogo a quello della lavoratrice licenziata. Il giudice di Roma aveva argomentato che una posizione a termine non potesse essere proposta come alternativa al licenziamento di un lavoratore in forza a tempo indeterminato (e non violasse quindi l’obbligo di repêchage).
Nel caso deciso dalla Corte milanese, invece, la nuova risorsa è stata assunta a tempo determinato in sostituzione di un altro dipendente assente, con diritto alla conservazione del posto di lavoro, una fattispecie ben più focalizzata e che non fa sorgere dubbi circa l’eventuale uso elusivo di una assunzione a termine (possibile primo passo per un ingresso definitivo in azienda).
La sentenza della Corte di Milano si è soffermata anche sulla questione della efficacia del licenziamento, ove la comunicazione di invito alla procedura di conciliazione presso la Dtl e il successivo recesso risultino firmati da un responsabile delle risorse umane privo dei necessari poteri.
I giudici hanno respinto l’eccezione del ricorrente qualificando le lettere inviate dal legale della società al procuratore del lavoratore, nonché le memorie depositate dalla azienda nel corso del contenzioso, come atti utili ad attestare una «ampia ratifica della volontà di licenziare» con il conseguente superamento della carenza di poteri della responsabile delle risorse umane.
Sul punto la pronuncia è in linea con il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha affermato, tra l’altro, che anche gli atti del procedimento disciplinare, sfociati in un licenziamento, adottati da un “falsus procurator” sono implicitamente ratificati dalla costituzione in giudizio della datrice di lavoro per resistere al ricorso del lavoratore contro il recesso (si veda Cassazione 4777/2006).
È interessante rilevare che sul punto la dottrina, pur condividendo la possibilità di ratificare gli atti di recesso firmati da un soggetto comunque identificabile come alter ego dell’imprenditore nell’azienda, ha sollevato dubbi circa le ipotesi, pur marginali, in cui il “falsus procurator” sia un soggetto estraneo all’azienda o comunque non gerarchicamente sovraordinato rispetto al lavoratore licenziato.
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