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Nuova attività del lavoratore in cassa integrazione: la comunicazione all'Inps è sempre obbligatoria

La Corte di Cassazione è intervenuta in merito all'obbligo di comunicazione all'INPS della nuova attività lavorativa svolta, in costanza di cassa integrazione, da parte del dipendente sospeso

di Mauro Marrucci

In anteprima da Guida al Lavoro n. 46 del 18 novembre 2022

Il lavoratore in cassa integrazione è comunque tenuto a dare preventiva comunicazione all'INPS dell'attività lavorativa svolta durante il periodo in cui è coinvolto dall'ammortizzatore sociale, qualunque sia la tipologia contrattuale, in quanto potenzialmente remunerativa. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con l'ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31146.

La vicenda contenziosa
La fattispecie contenziosa – che qui interessa per una ricognizione in merito all'obbligo comunicativo di cui in argomento previsto dall'art. 8 del D.Lgs. n. 148/2015 – attiene al licenziamento disciplinare di un dipendente, pilota di una compagnia di navigazione aerea, per aver omesso di comunicare alla società e all'INPS, durante la fruizione della cassa integrazione guadagni straordinaria ex art. 1-bis della legge n. 291/2014, di aver svolto nello stesso periodo di sospensione (dal 17 febbraio al 31 marzo 2014) attività lavorativa in favore di un altro vettore aereo con un comportamento ritenuto truffaldino in quanto finalizzato a percepire somme alle quali non aveva diritto. Il licenziamento de quo, seppure tempestivo sotto il profilo del procedimento disciplinare, era stato ritenuto dal Tribunale di Tempio Pausania sanzione sproporzionata e, come tale, giudicato illegittimo. Il Giudice di prime cure aveva infatti condannato la società datrice di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria quantificata in dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale percepita oltre a rivalutazione monetaria e interessi. La sentenza era stata tuttavia riformata dalla Corte di Appello di Cagliari, sezione di Sassari, investita del reclamo da parte della richiamata società che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento rigettando le domande originariamente proposte dal lavoratore. La Corte territoriale aveva giudicato tempestivo il licenziamento, osservando che la condotta omissiva del lavoratore sarebbe stata deliberatamente posta in essere al fine di percepire sia la retribuzione convenuta per il nuovo rapporto, sia il trattamento di integrazione salariale dal quale, ove avesse proceduto alle comunicazioni dovute, sarebbe decaduto, ritendo tale comportamento di una gravità tale da giustificare l'irrogazione della massima sanzione espulsiva, restando irrilevante la mancanza di pregressi precedenti disciplinari. Il lavoratore ha quindi invocato la Corte di Cassazione che ha tuttavia rigettato il ricorso confermando l'opzione giurisprudenziale offerta dal Giudice di Appello.

L'intervento della Corte di Cassazione
Tralasciando la dinamica processuale nel suo più ampio svolgimento, per quanto ci occupa è opportuno soffermarci sulla prospettazione della Suprema Corte in merito all'obbligo da parte del lavoratore di effettuare la comunicazione all'INPS in caso di lavoro contiguo ad un periodo di sospensione con intervento della cassa integrazione.
Il Giudice di legittimità ritiene che non sussistano ragioni che possano indurre a discostarsi dai precedenti interventi (Cass. 3121/2021; 3122/2021 e 3116/2021) su questioni del tutto analoghe a quella oggetto del giudizio su cui è chiamato a decidere nelle quali si è affermato "che l'obbligo di comunicazione preventiva a carico del lavoratore interessato sussiste anche se la nuova occupazione dia luogo ad un reddito compatibile con il godimento del trattamento di integrazione salariale (Cass. 5019/2014), che essa riguarda ogni attività di lavoro autonomo (oltre che subordinato), anche non riconducibile allo schema contrattuale di cui agli art. 2222 ss. e 2230 ss. c.c. (Cass. 11679/2005) e anche se svolta nell'ambito della partecipazione ad un'impresa, e ancora, più in generale, qualunque attività potenzialmente remunerativa, pur se in concreto non abbia prodotto alcun reddito e pur se l'ente Previdenziale ne abbia avuto comunque tempestiva notizia da parte del nuovo datore di lavoro, o aliunde" (Cass. 2788/2001). Sotto una diversa prospettazione la Suprema Corte ha affermato che, ai fini dell'obbligo di comunicazione, l'ulteriore attività svolta non deve avere il carattere della prevalenza - in quanto tale requisito non è previsto dalla norma - con la conseguenza che va esclusa la necessità di ogni indagine giudiziale in ordine all'impegno temporale del lavoratore nell'attività svolta nei periodi di cassa integrazione, ovvero all'apporto economico di tale attività rispetto al totale dei redditi percepiti nel periodo (Cass. 8490/2003 e 15890/2004), e neppure rileva che essa non sia soggetta a contribuzione (Cass. 2788/2001).
Ne deriva che l'ambito delle attività soggette alla comunicazione preventiva deve essere individuato nel suo significato più ampio valendo per qualsiasi attività di lavoro. In questo senso, la Suprema Corte definisce l'attività lavorativa "come insieme di condotte umane caratterizzate dall'utilizzo di cognizioni tecniche (anche se del genere più vario e della più diversa complessità), che siano obiettivamente idonee a produrre reddito. Vi rientrano, pertanto, tutte le attività qualificabili come lavorative nel senso sopra precisato (implicanti l'impiego di una professionalità, per quanto minima, e potenzialmente redditizie), senza che assuma valore la forma negoziale nella quale esse siano svolte (Cass. n. 2788/2001) o la loro effettiva remunerazione, rilevandone la sola potenziale redditività (Cass. 3121/2021; 3122/2021 e 3116/2021).
Sulla base di queste motivazioni, pertanto, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore reo di non aver effettuato all'INPS la comunicazione prevista dall'art. 8 del D.Lgs. n. 148/2015.

Il primigenio apparato normativo e l'intervento della prassi: sulla nuova attività del lavoratore in CIG
L'art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 148/2015, nella versione originaria, stabiliva che "Il lavoratore che svolga attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al trattamento per le giornate di lavoro effettuate".
La materia era stata oggetto di interpretazione da parte della prassi e della giurisprudenza. Corte Cost. n. 195/1995 aveva precisato che l'inizio di un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, comportando la risoluzione del precedente che costituiva il fondamento del sostegno al reddito, avrebbe determinato un'incompatibilità assoluta e, con essa, la perdita dell'integrazione salariale. Il mancato superamento del periodo di prova avrebbe comunque permesso al dipendente di rientrare nel solco del programma di cassa integrazione (INPS, msg. n. 16606/2012).
Con la circolare n. 130/2010, l'INPS ha chiarito che la compatibilità sarebbe invece piena e l'integrazione salariale totalmente cumulabile quando la nuova attività di lavoro dipendente fosse collocata in ore della giornata o in periodi non sovrapponibili con l'attività lavorativa che ha originato la provvidenza come nel caso dei rapporti part-time (o di lavoro intermittente senza disponibilità), sia a tempo determinato che indeterminato. Alla stessa conclusione si sarebbe pervenuti anche nell'ipotesi di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e di uno part-time, purché le due attività fossero temporalmente compatibili, nel limite dell'orario medio massimo settimanale di lavoro (art. 4, D.Lgs. n. 66/2003).
Piena compatibilità si sarebbe individuata anche per il lavoro occasionale, ex art. 54-bis, D.L. n. 50/2017, potendosi cumulare i relativi proventi secondo le condizioni ivi previste.
Per altro verso, se la collocazione temporale della nuova attività fosse coincisa anche parzialmente con quella originaria, qualora il lavoratore avesse dimostrato che la remunerazione derivata avesse assunto un'entità inferiore alla misura del sostegno al reddito, avrebbe avuto diritto ad una quota reddituale pari alla differenza tra l'intero importo dell'integrazione salariale e il reddito percepito.
Ne sarebbe conseguita la compatibilità tra la stipula di un contratto di lavoro subordinato a termine e il diritto all'integrazione salariale, individuandosi una cumulabilità parziale ove il reddito prodotto dalla nuova attività lavorativa fosse risultato inferiore al trattamento. In tal caso il lavoratore avrebbe avuto diritto alla differenza tra il nuovo reddito e l'integrazione medesima.
Analogamente, ove il beneficiario della provvidenza derivante da un rapporto di lavoro a tempo pieno avesse stipulato un nuovo contratto di lavoro subordinato part-time, sia a termine che a tempo indeterminato, o di lavoro intermittente con disponibilità, avrebbe potuto cumulare parzialmente l'integrazione salariale con il reddito generato da tale attività anche se in parte sovrapponibile con quella originaria per collocazione oraria.
Il cumulo parziale riguardava anche la nuova attività di lavoro autonomo, la collaborazione coordinata e continuativa, gli incarichi pubblici elettivi e i rapporti di servizio onorario con la Pubblica Amministrazione.
In queste ipotesi il beneficiario avrebbe dovuto documentare l'ammontare del reddito e la sua collocazione temporale per consentire all'INPS di erogare l'eventuale differenziale di integrazione salariale. Ove l'entità dei redditi non fosse stata agevolmente quantificabile o collocabile temporalmente, l'Istituto avrebbe sospeso l'erogazione della provvidenza.

L'attuale apparato normativo e l'assenza di chiarimenti in merito
L'art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 148/2015, è stato sostituito dall'art. 1, comma 197, della legge n. 234/2021, con decorrenza dal 1° gennaio 2022 e successivamente modificato dall'art. 23, comma 1, lett. c) del D.L. n. 4/2022, convertito dalla legge n. 25/2022.
Secondo la novellata previsione normativa "Il lavoratore che svolga attività di lavoro subordinato di durata superiore a sei mesi nonché di lavoro autonomo durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al trattamento per le giornate di lavoro effettuate. Qualora il lavoratore svolga attività di lavoro subordinato a tempo determinato pari o inferiore a sei mesi, il trattamento è sospeso per la durata del rapporto di lavoro".
La nuova disposizione crea una distinzione sostanziale tra i lavoratori subordinati a termine con contratto di durata fino a sei mesi e gli altri lavoratori subordinati o autonomi. Ne deriverebbe che la prassi ut supra richiamata perda, seppure in parte, di consistenza interpretativa in guisa tale da necessitare di un ulteriore chiarimento che, per quanto consta, non è ancora stato fornito. Non si comprende infatti quale sia il motivo per cui, ad esempio, un lavoratore con un contratto di lavoro a tempo indeterminato parziale, con orario collocato nelle sole ore del mattino, debba vedersi sospeso il trattamento d'integrazione salariale ove stipuli, in costanza di cassa integrazione, un ulteriore contratto a termine, part-time, di durata pari o inferiore a sei mesi, da svolgersi nelle ore pomeridiane.

Nuova attività lavorativa in costanza d'integrazione salariale e onere di comunicazione all'INPS
Secondo quanto previsto dall'art. 8, comma 3, del D.Lgs. n. 148/2015, "Il lavoratore decade dal diritto al trattamento di integrazione salariale nel caso in cui non abbia provveduto a dare preventiva comunicazione alla sede territoriale dell'INPS dello svolgimento dell'attività di cui al comma 2".
L'onere del lavoratore è tuttavia alleggerito dal secondo periodo della richiamata disposizione il quale prevede che "Le comunicazioni a carico dei datori di lavoro e delle imprese fornitrici di lavoro temporaneo, di cui all'articolo 4-bis del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, sono valide al fine dell'assolvimento degli obblighi di comunicazione di cui al presente comma". Tale ultima disposizione evoca il principio della c.d. pluriefficacia delle comunicazioni effettuate al Centro per l'Impiego entro le ore 24 del giorno antecedente a quello di effettiva instaurazione del rapporto di lavoro.
Tali comunicazioni preventive sono gestite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali tramite il sistema informatico per le comunicazioni obbligatorie (mod. "UNILAV") e acquisite nelle procedure INPS.
L'art. 9, comma 5, del D.L. n. 76/2013 ha attribuito alla previsione normativa di cui all'articolo 4-bis, comma 6, del D.Lgs. n. 181/2000, la funzione di assolvere a qualsiasi obbligo informativo ulteriore eventualmente connesso, anche indirettamente, al rapporto di lavoro, in ossequio al richiamato principio della "pluriefficacia".
Il Ministero del Lavoro, con l'interpello n. 19/2012, aveva già precisato che per la decadenza dal diritto di cui all'art. 8, comma 5, legge n. 160/1988, non trovava più applicazione, almeno con riferimento alle tipologie lavorative oggetto della comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto, l'obbligo imposto al prestatore di lavoro di comunicare all'Istituto lo svolgimento di attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale ex art. 8, comma 4, legge n. 160/1988.
Tale opzione interpretativa era stata fatta propria dall'art. 8, comma 5, della legge n. 160/1988, e successivamente, di fatto, trasposto nell'art. 8, comma 3, del D.Lgs. n. 148/2015.
Resta tuttavia l'onere ad adempiere (o a verificare l'adempimento del terzo datore di lavoro o committente) per il lavoratore. Ne deriva che, ove l'attività lavorativa non sia comunicata da altri al Centro per l'Impiego per mera dimenticanza o errore da parte del nuovo soggetto datoriale o non ne sia dovuta la comunicazione, il dipendente sospeso in seguito all'intervento dell'ammortizzatore sociale decadrebbe dalla provvidenza per l'intero periodo di sostegno al reddito (INPS, circolare n. 57/2014).
Secondo la circolare n. 57/2014 emanata dall'INPS, la mancata comunicazione comporta la decadenza dall'intero periodo di integrazione salariale. Così come già affermato con la Sentenza n. 2788/2021, la Suprema Corte, con l'Ordinanza n. 31146/2022, conferma che la comunicazione all'INPS debba essere effettuata per qualsiasi attività, anche soltanto potenzialmente remunerativa e seppure, in concreto, non abbia prodotto alcun reddito. Tuttavia la Suprema Corte afferma che l'onere per il lavoratore di comunicare all'Istituto lo svolgimento della contigua nuova attività di lavoro sussista in tutti i casi, "pur se l'ente Previdenziale ne abbia avuto comunque tempestiva notizia da parte del nuovo datore di lavoro" dimenticando, almeno così sembra, la previsione della seconda parte del richiamato art. 8, comma 3.