Rapporti di lavoro

Possibile il part time con orario inferiore a quello del contratto collettivo

Un accordo collettivo aziendale o la certificazione del contratto possono consentire alle parti un’intesa su impieghi con un numero di ore settimanali ridotto

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di Alberto Bosco

Accade talvolta che il personale ispettivo contesti al datore di lavoro di aver assunto un lavoratore per una prestazione il cui orario settimanale non "raggiunge" la soglia minima fissata da alcuni contratti collettivi, di solito in una misura che si aggira attorno alle 16 ore nell'arco della settimana.
In questi casi, ci si chiede, il comportamento delle parti è legittimo?
E poi, di conseguenza, i contributi devono essere versati con riferimento all'orario minimo di cui al contratto collettivo nazionale di lavoro o in base alle (minori) ore che sono state effettivamente rese in base all'accordo stipulato direttamente tra datore e dipendente?
Va anzitutto evidenziato che gli articoli da 4 a 12 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nulla prevedono a tale riguardo, contrariamente a quanto può dirsi (per esempio) in materia di lavoro supplementare e clausole elastiche.
In assenza di vincoli legislativi, quindi, pare proprio di potersi affermare che le parti sono libere di stabilire quante ore di lavoro vengono dedotte nel contratto.
Spesso però accade che il contratto collettivo – di norma quello nazionale – intervenga su questo punto, prevedendo appunto un orario minimo, di norma pari a 16 ore.
Ebbene, in questo caso, la previsione tra le parti di 1 ora può ritenersi legittima?
A nostro avviso sì, ciò sia perché la norma non delega in alcun modo il contratto collettivo a regolare tale aspetto e, poi, perché pare di potersi ritenere che un'eventuale clausola contrattuale collettiva in tal senso abbia carattere ordinatorio e non perentorio.
In buona sostanza, se il lavoratore è libero solo per 8 o 12 ore alla settimana e il datore ha necessità di tale quantità di prestazione – e non di una maggiore – applicare alla lettera la previsione del contratto collettivo (le 16 ore del nostro esempio) non si tradurrebbe altro che in un vulnus alla libera volontà delle parti, con danno per entrambe.
Del resto, con riguardo al calcolo della contribuzione previdenziale e assistenziale nel caso in cui l'orario di lavoro pattuito sia inferiore a quello definito dal contratto collettivo nazionale, lo stesso Inps ha precisato che i contributi previdenziali ed assistenziali devono essere calcolati tenendo conto dell'orario pattuito tra le parti nel contratto di lavoro a tempo parziale, anche se inferiore a quello minimo definito dal ccnl di riferimento.
È pur vero che – anche se con riferimento alla disciplina vigente prima del DLgs 61/2000, e poi di quella di cui al DLgs 81/2015 – la Corte di Cassazione, in un’isolata pronuncia, ha affermato che ove l’orario pattuito nel contratto individuale sia inferiore alle ore previste dal Ccnl (nel caso di specie: 14), sono comunque dovuti i contributi previdenziali in relazione alla soglia minima determinata dal ccnl , ma si tratta di decisione che – per le ragioni sopra esposte – non si ritiene di condividere.

Ove il datore di lavoro, d’accordo con il dipendente, decida di intraprendere questa strada, possono quindi suggerirsi un paio di rimedi:

a) il primo consiste nello stipulare con il sindacato un accordo collettivo aziendale che deroghi a quanto è stato previsto in sede nazionale;

b) il secondo riguarda, invece, la possibilità di ricorrere alla certificazione di tale contratto, con tutti i vantaggi che ne conseguono.

Va poi rilevato che, nell’ipotesi che stiamo esaminando, non pare applicabile neppure l'articolo 2077 del Codice civile, in base al quale i contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo, e che le clausole difformi dei contratti individuali preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro. Qui il favor verso il lavoratore è dato dalla possibilità di accedere a unìoccupazione (seppure a orario ridotto) la quale, altrimenti, non esisterebbe, vuoi per il non interesse del datore vuoi causa della non disponibilità da parte del dipendente. Insomma, in buona sostanza, posto che un orario a tempo parziale assai contenuto (anche solo 8 ore la settimana) può rappresentare una soluzione di reciproca convenienza – ossia tanto per il dipendente quanto per il datore – non si comprende perché qualcuno debba "metterci lo zampino" e rovinare tutto.

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