Contenzioso

Rassegna della Cassazione

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di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa

Violazione degli obblighi di diligenza e di obbedienza e licenziamento per giusta causa

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Nessuna responsabilità del datore per il super-lavoro prestato invito domino

Licenziamenti collettivi e comunicazione finale della procedura

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 29 luglio 2015, n. 16078

Pres. Stile; Rel. Ghinoy; P.M. Fresa; Ric. M.D.S.; Contr. H.R. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Presupposti - Negazione degli elementi fondamentali del rapporto e specificamente della fiducia - Rilevanza - Considerazione degli aspetti concreti della natura del rapporto e del fatto addebitato - Necessità - Fattispecie relativa al licenziamento di un dipendente a causa di un diverbio litigioso sfociato in vie di fatto con un collega.

In ipotesi di licenziamento per giusta causa, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.

Nota

La sentenza in commento trae origine da una pronuncia della Corte d'appello di Roma che, nel confermare la decisione del Tribunale della stessa sede, rigettava il reclamo proposto da un lavoratore avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento in tronco irrogatogli a causa di un diverbio litigioso sfociato in vie di fatto con un collega.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione lamentando, innanzitutto, che dalle risultanze istruttorie non era emersa la prova di chi avesse dato origine al diverbio e che il mancato accertamento di tale circostanza avrebbe viziato anche la valutazione di proporzionalità della sanzione. Secondo l'assunto del ricorrente il giudizio di proporzionalità sarebbe viziato, inoltre, dal non aver tenuto conto il giudice di merito della carriera professionale del lavoratore né del fatto che l'episodio si era verificato in un piano interrato, lontano dalla clientela e in un orario di pausa dal lavoro.

La Cassazione ha rigettato il ricorso rilevando come la Corte territoriale avesse correttamente ritenuto fondato l'addebito, argomentando che dall'istruttoria svolta era emerso un quadro probatorio costituito da una serie di indizi precisi e concordanti nel senso di un'aggressione fisica e violenta realizzata dal lavoratore a danno del collega di lavoro.

In merito all'idoneità dell'inadempimento a costituire giusta causa di risoluzione del rapporto, la Suprema Corte ha, poi, richiamato la costante giurisprudenza di legittimità sul punto, secondo la quale, per giustificare un licenziamento disciplinare, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.

Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte territoriale si è attenuta a tale insegnamento. Il giudizio di proporzionalità tra l'addebito e la sanzione è stato, infatti, compiuto sulla base del rilievo che la condotta addebitata, correttamente ricostruita sulla base delle emergenze processuali, denotasse un'inclinazione del lavoratore alla reazione fisica e violenta incontrollata rispetto a situazioni di potenziale conflittualità, oggettivamente grave e tale da ledere la fiducia nel futuro, corretto adempimento, considerate le mansioni di coordinatore dei servizi ristorativi, con rapporti sia con i camerieri dallo stesso coordinate sia con la clientela, che richiedevano invece capacità di mediazione ed equilibrio. Né l'evidenza di tale conclusione poteva essere smentita da elementi quali l'assenza di precedenti contestazioni, considerato che, nella fattispecie, la recidiva non era stata ritenuta significativa al fine della valutazione della condotta.




Violazione degli obblighi di diligenza e di obbedienza e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 8 luglio 2015, n. 14273

Pres. Stile; Rel. Venuti; P.M. Matera; Ric. D.E.; Contr. R. S.p.A.;

Violazione dell'obbligo di diligenza ex art. 2104 c. c. - Violazione dell'obbligo di obbedienza - Notevole inadempimento ai doveri contrattuali - Licenziamento per giusta causa - Legittimità

L'obbligo di diligenza di cui all'art. 2104 c.c. si sostanzia non solo nell'esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa (diligenza in senso tecnico), ma anche nell'esecuzione dei comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all'interesse del datore di lavoro ad un'utile prestazione. L'obbligo di obbedienza, costituente un aspetto fondamentale della subordinazione, invece, deriva dal diritto, riconosciuto contrattualmente al datore di lavoro, di determinare in concreto la destinazione delle energie lavorative che il prestatore è tenuto a fornire. L'inosservanza di detti obblighi può assurgere a giusta causa di licenziamento ai sensi dell'art. 2119 c.c. qualora il fatto integri gli estremi di un notevole inadempimento ai doveri contrattuali.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Cassazione, la Corte di appello di Roma aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata da un lavoratore tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli. Il recesso era stato motivato dal fatto che il dipendente, assunto quale "controller" presso un albergo di Roma, rifiutava non solo qualsiasi rapporto di dipendenza gerarchica con la Direzione Amministrativa ma anche qualsiasi rapporto di colleganza. Inoltre al lavoratore era stato contestato di non effettuare alcun controllo sui costi e sui ricavi e di omettere ogni attività di raccolta informazioni per le stime e le previsioni a breve termine.

Avverso tale decisione, il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando, in primo luogo, che la Corte di merito, erroneamente lo aveva ritenuto responsabile di atti di insubordinazione non considerando che il suo rifiuto di sottostare agli ordini gerarchici era dipeso dal fatto che il ricorrente era stato isolato nell'ambiente lavorativo, tanto che non gli era stato più consentito di svolgere i suoi compiti.

La Suprema corte respinge il motivo evidenziando, preliminarmente, che il prestatore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2104 c.c. ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, diligenza che si sostanzia non solo nell'esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa (diligenza in senso tecnico), ma anche nell'esecuzione di comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all'interesse del datore di lavoro ad un'utile prestazione. Inoltre, il lavoratore è tenuto ad osservare l'obbligo di obbedienza, costituente un aspetto fondamentale della subordinazione, che deriva dal diritto, contrattualmente riconosciuto al datore di lavoro, di determinare in concreto la destinazione delle energie lavorative che il lavoratore è tenuto a fornire. Ebbene, l'inosservanza di detti obblighi può assurgere a giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., qualora integri gli estremi di un notevole inadempimento ai doveri contrattuali.

Nel caso di specie, a parere della Cassazione, correttamente la Corte di merito aveva rilevato che il dipendente rifiutava qualsiasi rapporto di dipendenza gerarchica, né collaborava con i suoi superiori come era dimostrato dal fatto che, dinanzi alla richiesta del nuovo responsabile del settore amministrativo, di fornirgli dati e fatture anteriori al suo insediamento, il ricorrente, anziché prestare una fattiva collaborazione, si era limitato a consegnare una scatola piena di documenti. Inoltre, il dipendente si era rifiutato di sottoporre la sua richiesta ferie alla firma del Direttore Amministrativo. Tutti elementi che, valutati complessivamente, denotavano un comportamento volutamente in contrasto con le direttive aziendali e di scarsa collaborazione, idoneo a far venire meno il rapporto di fiducia che è alla base del rapporto di lavoro.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c., in quanto la sentenza impugnata non avrebbe considerato che la sua dignità professionale e personale era stata costantemente calpestata dal datore di lavoro come era dimostrato dalla circostanza che, per alcuni mesi, era stato lasciato privo di una postazione lavorativa ed era stato messo "coattivamente" in ferie.

Anche tale motivo viene respinto, in quanto, secondo la Cassazione, con tale doglianza il ricorrente dimostra di non tenere conto che il periodo iniziale del suo rapporto lavorativo era coinciso con la fase di avvio dell'albergo, la cui apertura era slittata, costringendo tutti i dipendenti - non solo il ricorrente - a soluzioni logistiche precarie ed a periodi di inattività, peraltro retribuiti. In tale situazione, ad avviso della Suprema Corte, contrariamente a quanto denunciato dal ricorrente, non poteva certo parlarsi di dequalificazione né, tanto meno, di una condotta di mobbing.




Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 31 luglio 2015 n. 16267

Pres. Stile; Rel. Bandini; Ric. F.S.; Controric. P.E.A. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - Comporto - Superamento del periodo di comporto - Recesso del datore di lavoro - Tempestività - Valutazione - Criteri

Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi che va riconosciuto al datore di lavoro, affinché quest'ultimo possa valutare convenientemente, nel suo complesso, la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della presenza in azienda del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali; pertanto, in questo caso, la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative, e la cui valutazione non è sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - Comporto - Superamento del periodo di comporto - Recesso del datore di lavoro - Facoltà di attendere il rientro del lavoratore - Ammissibilità - Fondamento - Affidamento del lavoratore - Condizioni

Fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo di comporto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. Ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l'eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.

Nota

La decisione della Suprema Corte in commento ha ad oggetto la tempestività del licenziamento per superamento del periodo di comporto nel caso in cui il datore di lavoro non intimi immediatamente il recesso ma attenda il rientro in servizio del prestatore di lavoro. Investita della controversia in esame, la Corte d'Appello di Milano aveva confermato la sentenza emessa dal giudice di prime cure con la quale era stata dichiarata la legittimità del licenziamento.

La Corte d'Appello, infatti, aveva rigettato l'eccezione di intempestività del licenziamento sollevata dalla lavoratrice sulla base del fatto che il datore aveva intimato il licenziamento circa quattro mesi dopo il superamento del periodo di comporto (peraltro, pacifico tra le parti).

La decisione della Corte fondava sulla considerazione che la Società datrice di lavoro aveva il diritto di attendere il rientro in servizio della lavoratrice per poter valutare l'opportunità di un suo possibile riutilizzo, con la conseguenza che l'unico periodo da tenere in considerazione per valutare il verificarsi di un'eventuale rinuncia al licenziamento era quello tra il rientro in servizio della dipendente e il licenziamento (nel caso di specie, circa un mese e mezzo). In aggiunta, la Corte aveva ritenuto che, in considerazione delle rilevanti dimensioni aziendali, era plausibile che la Società non avesse avuto immediata conoscenza dello scadere del periodo di comporto. In virtù di quanto sopra e anche in considerazione del fatto che il licenziamento era stato intimato immediatamente dopo il verificarsi di un ulteriore evento morboso, lo stesso era stato reputato tempestivo dalla Corte.

La lavoratrice ricorreva in Cassazione contro tale sentenza con unico motivo di impugnazione, lamentando la violazione degli artt. 2110, 2697, comma 2, e 2727 c.c. In particolare, la lavoratrice sosteneva che in un caso simile al suo (inerzia nell'intimare il licenziamento di tre mesi) il recesso era stato ritenuto intempestivo in quanto il periodo intercorrente tra il superamento del comporto e il licenziamento era sufficiente a far ritenere intervenuta una rinuncia del datore al diritto di recesso. In aggiunta, secondo la lavoratrice, era evidente che le dimensioni della Società non le avevano impedito di avere contezza immediata della scadenza del periodo di comporto sin dal suo verificarsi, data la celerità con cui il recesso aveva seguito il secondo evento morboso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

In primo luogo ha affermato che nel licenziamento per superamento del periodo di comporto il datore ha diritto ad un ragionevole spatium deliberandi prima di intimare il licenziamento, così da poter valutare la sequenza di eventi morbosi nel suo complesso e la compatibilità della presenza in azienda del lavoratore con gli interessi aziendali. In secondo luogo la Cassazione ha statuito che, a seguito del superamento del periodo di comporto, il datore può alternativamente recedere immediatamente dal rapporto di lavoro o attendere il rientro del lavoratore per verificarne eventuali margini di riutilizzo. Conseguentemente, "solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l'eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento".

In conclusione, ritenendo che la Corte territoriale aveva fatto corretta applicazione di tali principi, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata.




Nessuna responsabilità del datore per il super-lavoro prestato invito domino

Cass. Sez. Lav. 2 settembre 2015, n. 17438

Pres. Macioce; Rel. Amendola; Ric. P.A.; Controric. C.B.U.L.F.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Danno alla salute del lavoratore - Responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. - responsabilità oggettiva - esclusione - responsabilità per colpa.

Dal dovere di prevenzione imposto al datore di lavoro dall'art. 2087 c.c. - che non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva - non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che un danno si sia comunque verificato, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i limiti della responsabilità risarcitoria del datore di lavoro in caso di "eccessivo carico di lavoro" lamentato da un dipendente.

Nel caso di specie, i giudici di merito avevano respinto la domanda del lavoratore, evidenziando, tra il resto, che, all'esito dell'istruttoria, non era risultato provato che il dipendente fosse stato obbligato al raggiungimento di determinati risultati produttivi né che il datore gli avesse imposto la prestazione di lavoro straordinario oltre i limiti legali. In definitiva - concludeva la Corte d'Appello - il dipendente si era fatto "carico di oneri che spettavano ad altri e di cui altri avevano la responsabilità, ma per sua esclusiva scelta di ordine morale, che vale ad interrompere il nesso di causalità tra fatto causativo e danno".

La Cassazione ha confermato e condiviso la decisione della Corte territoriale, ricordando, anzitutto, che, per giurisprudenza consolidata, dal dovere di prevenzione imposto al datore di lavoro dall'art. 2087 c.c. - che non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva - non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che un danno si sia comunque verificato, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati.

Quanto alla ripartizione degli oneri probatori, la Suprema Corte ha puntualizzato che in un'azione di responsabilità avente natura contrattuale - qual è quella ex art. 2087 c.c. - incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, sì che non possa essere a lui addebitabile l'inadempimento dell'obbligo di sicurezza previsto dalla norma.




Licenziamenti collettivi e comunicazione finale della procedura

Cass. Sez. Lav. 10 luglio 2015, n. 14429

Pres. Lamorgese; Rel. Nobile; P.M. Ceroni; Ric. B.D.N. S.p.A.; Controric. e ricorr. incid. S.V.

Licenziamento collettivo - Comunicazione finale della procedura - Omesso invio a uno degli enti destinatari - Inefficacia del licenziamento - Esclusione - Condizioni - Verifica del raggiungimento dello scopo dell'atto e della funzione che l'ente è chiamato a svolgere nell'ambito della procedura - Necessità

Nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, la comunicazione di cui all'art. 4, comma nono, che fa obbligo di indicare puntualmente le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi il controllo sulla correttezza dell'operazione. Ne consegue, alla luce di tale interpretazione finalistica della norma, che, ai fini di una valutazione circa l'osservanza della predetta norma, non può prescindersi dal complessivo effettivo espletamento della procedura, dall'eventuale conseguente raggiungimento dello scopo ed, altresì, in particolare, dall'esame del ruolo in concreto svolto, nella fattispecie, dall'unico organo in relazione al quale la comunicazione de qua è stata omessa (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello che aveva affermato che l'omessa comunicazione alla Commissione Regionale Permanente Tripartita costituiva violazione dell'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 e determinava l'inefficacia del licenziamento).

Nota

La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991, affermando che la omessa comunicazione alla Commissione Regionale Permanente Tripartita (organismo che aveva sostituito la Commissione Regionale per l'Impiego) costituiva violazione dell'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 e determinava l'inefficacia del licenziamento.

Avverso la predetta sentenza, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi, con i quali, principalmente, denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 4, cc. 9 e 12 L. n. 223/91, nonchè vizio di motivazione. La società ricorrente, in particolare, sosteneva che: a) l'omessa comunicazione alla sola Commissione Regionale Tripartita non poteva inficiare l'intera procedura, atteso che la comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 aveva raggiunto comunque il suo scopo, avendo consentito alla Direzione Regionale del Lavoro, alle OO.SS. e, soprattutto, al lavoratore, di controllare la regolarità dell'esercizio del potere datoriale; b) la Corte territoriale aveva omesso di considerare quali fossero le reali attribuzioni dell'unico organo al quale non era stata trasmessa la comunicazione (la Commissione Regionale Tripartita, infatti, non opera nell'ambito del settore bancario e, comunque, ha compiti assai circoscritti nell'ambito della procedura di mobilità).

La Suprema Corte, valutati unitariamente i suddetti motivi ha accolto il ricorso (cassando con rinvio la sentenza impugnata) affermando che l'omessa comunicazione ad uno dei destinatari della comunicazione ex art. 4, c. 9, L. n. 223/91 non determina ex se l'inefficacia del licenziamento irrogato, occorrendo verificare, in concreto, se lo scopo della comunicazione sia stato comunque raggiunto e se l'ente, al quale sia stato omesso l'invio, abbia, nell'ambito della procedura, una specifica funzione di controllo.

Tale principio si fonda su una interpretazione teleologica della norma de qua (art. 4, c. 9, L. n. 223/1991), secondo cui ratio della comunicazione finale è quella di garantire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi il controllo sulla correttezza dell'operazione (cfr. ex plurimis Cass. 16/02/2010, n. 3603).

Proprio alla luce di tale interpretazione finalistica della norma, la Suprema Corte ha affermato che anche le comunicazioni agli organi amministrativi devono essere interpretate in relazione al "ruolo" e alla funzione di "controllo" agli stessi attribuiti.

Partendo da tali premesse, la Corte di Cassazione, valorizzando la ratio della norma e discostandosi da un'interpretazione formalista della stessa, è giunta ad affermare, coerentemente ad altra recente pronuncia (v. Cass. 11/06/2015, n. 12122), che la valutazione circa l'osservanza della predetta norma và fatta tenendo conto dell'eventuale "raggiungimento dello scopo" dell'atto e del "ruolo" (id est: funzione di "controllo") in concreto svolto dall'unico organo al quale sia stata omessa la comunicazione finale.

Occorre, dunque, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, verificare: 1) se la comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991, abbia comunque garantito ai lavoratori interessati (per il tramite delle organizzazioni sindacali e degli enti amministrativi cui la stessa è indirizzata) il controllo sulla correttezza della procedura; 2) se l'organo al quale sia stata omessa la comunicazione abbia realmente una funzione di controllo nell'ambito della medesima procedura. Se tale funzione è esclusa e/o limitata e l'atto ha raggiunto, comunque, il suo "scopo", l'omessa comunicazione ad uno dei destinatari previsti dall'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 non determina l'inefficacia del licenziamento.

La Suprema Corte, coerentemente con tali principi, ha cassato la sentenza di merito che, basandosi su un'interpretazione formalista dell'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991, aveva dichiarato l'illegittimità della procedura sulla base del mero rilievo formale che la comunicazione finale non era stata trasmessa alla Commissione Tripartita (inclusa tra i destinatari della comunicazione ex art. 4, c. 9, l. n. 223/1991).

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