Rassegna della Cassazione
Potere disciplinare e procedimento penale
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e controllo giudiziale
Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore
Licenziamento collettivo e comunicazione finale della procedura
Licenziamento collettivo e comunicazione di avvio della procedura
Potere disciplinare e procedimento penale
Cass. Sez. Lav. 21 giugno 2016, n. 12824
Pres. Venuti; Rel. Berrino; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. R.G.G.;
Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Principio della immediatezza della contestazione - Carattere relativo - Correttezza e buona fede - Accertamento di merito - Insindacabilità in cassazione - Limiti.
Nell'ambito del procedimento disciplinare regolato dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970, il requisito della immediatezza della contestazione va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile, nei limiti della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto da parte del datore di lavoro, con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo.
Nota
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce la nozione di immediatezza della contestazione disciplinare.
Nel caso di specie, il datore di lavoro - a seguito dell'avvio di un'indagine penale a carico di una propria dipendente per il reato di truffa aggravata consistita nell'illecita registrazione delle presenze mediante utilizzo del tesserino identificativo personale (c.d. badge) - invitava la lavoratrice a fornire chiarimenti sull'accaduto. La dipendente decideva di non rendere alcuna dichiarazione "per non pregiudicare l'esito della difesa in sede penale". La società datrice formulava, quindi, espressa riserva di azione a tutela dei suoi diritti ed interessi e, oltre un anno dopo, a seguito della sentenza penale di condanna, procedeva alla contestazione disciplinare dei fatti oggetto dell'indagine penale, irrogando, all'esito, la sanzione del licenziamento.
La lavoratrice impugnava giudizialmente l'atto di recesso. Entrambi i Giudici del merito accoglievano la domanda, argomentando, tra il resto, la tardività della contestazione sul presupposto che il datore avesse atteso l'esito del giudizio penale a carico della dipendente nonostante avesse già individuato con certezza, oltre un anno prima, tutti gli elementi di responsabilità nei confronti della medesima, senza peraltro disporne la sospensione cautelare dal servizio, il tutto a dimostrazione di una volontà di acquiescenza alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
La società datrice proponeva ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, "violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970".
La Suprema Corte accoglie il ricorso, osservando - anzitutto e ribadendo il proprio costante orientamento in merito - che il requisito dell'immediatezza della contestazione va inteso con ragionevole elasticità, essendo lo stesso compatibile con un intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni commesse dal lavoratore. In particolare - argomenta la Cassazione - la relativizzazione del concetto di immediatezza va parametrata sia all'intervallo temporale necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell'organizzazione del datore di lavoro, per un'adeguata valutazione della gravità dell'addebito mosso al dipendente e della validità o meno delle giustificazioni dallo stesso fornite, sia alle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati (da effettuarsi in modo ponderato e responsabile, anche nell'interesse del lavoratore a non vedersi colpito da incolpazioni avventate), soprattutto allorché il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre un'unica condotta, esigono una valutazione unitaria, sicché l'intimazione del licenziamento può seguire l'ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale da quelli precedenti.
Facendo applicazione di tali principi, i Giudici di legittimità concludono che la sequenza degli accadimenti ed il comportamento tenuto dalla lavoratrice - che, preferendo non rispondere immediatamente ai chiarimenti chiesti dal datore di lavoro, aveva indotto quest'ultimo a formulare la propria riserva d'azione in attesa dello sviluppo del procedimento penale che vedeva coinvolta la dipendente - confermano, oltre che il rispetto delle garanzie difensive dell'inquisita, anche il rispetto da parte della società dei principi di correttezza e buona fede ed, in ultima istanza, la validità del procedimento disciplinare e del relativo recesso.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e controllo giudiziale
Cass. Sez. Lav. 27 maggio 2016, n. 11010
Pres. Venuti; Rel. Berrino; P.M. Fuzio; Ric. A.V.D. S.p.A.; Contr. S.T.A.;
Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Controllo giudiziale - Limiti - Accertamento in concreto della ragione addotta.
Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. Pertanto, il controllo del giudice è limitato all'accertamento dell'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro.
Nota
La Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale del lavoro di Aosta, accoglieva l'impugnazione proposta da una società aeroportuale avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad una dipendente.
Secondo la Corte di merito, era risultato sussistente il motivo oggettivo di licenziamento, in quanto l'attività della società, a causa della forzata e prolungata chiusura dello scalo aeroportuale, aveva subìto una forte contrazione, per cui era effettiva la soppressione del posto occupato dalla lavoratrice, mentre, dal canto suo, quest'ultima non aveva dedotto quali sarebbero state le posizioni lavorative alternative presso cui avrebbe potuto essere collocata.
Avverso tale decisione la lavoratrice propone ricorso per cassazione rilevando che nella lettera di licenziamento non si faceva alcun riferimento ad una ristrutturazione della società dovuta ad una riduzione dell'attività produttiva e dalle risultanze istruttorie non era emersa una situazione finanziaria ed occupazionale della società tale da destare timori, per cui se il giudice di appello avesse correttamente valutato il materiale probatorio non avrebbe considerato legittimo il licenziamento giustificato dalla contrazione dell'attività dovuta alla momentanea chiusura dello scalo aeroportuale.
La Cassazione respinge il ricorso rilevando che correttamente la Corte di appello non ha esteso la propria valutazione di merito alle ragioni del processo di riorganizzazione aziendale, la cui individuazione rientra nell'ambito delle scelte imprenditoriali di libera iniziativa economica, limitandosi ad accertarne la sussistenza, vale a dire se effettivamente si era proceduto alla annunciata riorganizzazione del settore - contabilità - di cui faceva parte la lavoratrice licenziata. Invero, il giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. Pertanto, spetta al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro.
La Corte di merito, dopo aver premesso che la lavoratrice era addetta al settore contabilità, ha spiegato che all'esito della prova testimoniale era emerso che a causa della forzata e prolungata chiusura dello scalo aeroportuale l'attività della società aveva subìto una forte contrazione, e che, di conseguenza, anche le altre aziende, della cui contabilità la lavoratrice si occupava, erano entrate in crisi, tanto che dopo il licenziamento non si era proceduto a nuove assunzioni nella stessa qualifica e per le stesse mansioni. Infine, era significativo della forte contrazione dell'attività del datore di lavoro che neppure l'impiegata dimissionaria, anch'ella addetta allo stesso settore della ricorrente, era stata sostituita.
Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore
Cass. Sez. Lav. 30 maggio 2016, n. 11122
Pres. Amoroso; Rel. Tricomi; P.M. Fresa; Ric. R.T. S.p.a.; Contr. P.G. +1;
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Inidoneità sopravvenuta allo svolgimento di alcune mansioni - Obbligo di repêchage - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Necessità
Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dovuto alla sopravvenuta inidoneità del prestatore di lavoro a svolgere le mansioni affidategli, grava sul datore di lavoro l'onere di provare l'impossibilità di adibire il lavoratore alle mansioni svolte fino a quel momento, ovvero a mansioni inferiori.
Nota
Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un licenziamento intimato ad un lavoratore nella vigenza della disciplina precedente alla legge 92/2012 nonché alle modifiche all'art. 2103 c.c. (in materia di jus variandi) introdotte dal recentissimo d.lgs. n. 81/2015.
Il caso attiene ad un lavoratore adibito a mansioni "polifunzionali" - dunque comprendenti una serie di attività diverse tra loro - che era stato giudicato inidoneo, dapprima, allo svolgimento di compiti richiedenti l'utilizzo di carrelli elevatori e, successivamente, altresì all'utilizzo di qualsiasi tipo di carrello.
La Corte rigetta il ricorso ritenendo, da un lato, che dall'istruttoria era emerso che il lavoratore in questione, già prima dell'aggravamento della sua patologia, non era addetto a mansioni che prevedevano l'uso di carrelli e, dall'altro, che la sopradetta polifunzionalità delle mansioni aveva consentito ad altri colleghi, parimenti inidonei all'utilizzo di carrelli, di essere comunque adibiti a mansioni compatibili con il loro stato di salute. A ciò si aggiungeva che era stato provato l'impiego di tali colleghi anche in regime di lavoro straordinario, compreso, in alcune occasioni, addirittura il raddoppio del turno.
Da ciò la Corte ha argomentato, innanzitutto, che la polifunzionalità delle mansioni su cui si controverteva non escludeva, quantomeno in via astratta, una perdurante possibilità di utilizzo del lavoratore divenuto inidoneo alla sola movimentazione di carichi tramite carrelli. Di qui, la Cassazione ha fondato la necessità di una prova ulteriore, invero richiesta in tutti i casi di licenziamento per motivi oggettivi, relativamente al c.d. obbligo di repêchage: in altre parole, la prova della sopravvenuta impossibilità di adibire il lavoratore sia alle mansioni precedentemente espletate (nella specie, non consistenti nel solo utilizzo di carrelli), sia a mansioni diverse, anche se inferiori.
Nella sentenza in commento i giudici di legittimità, aderendo ad un orientamento abbastanza consolidato, ribadiscono che tale onere probatorio ulteriore, consistente nel dimostrare di aver assolto al c.d. obbligo di repêchage, grava in via esclusiva sul datore di lavoro.
Licenziamento collettivo e comunicazione finale della procedura
Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2016, n. 12095
Pres. Venuti; Rel. Amendola; P.M. Servello; Ric. S.R.; Controric. S.G. S.p.A..
Licenziamento collettivo - Comunicazione finale della procedura - Incompletezza - Conseguenze - Reintegrazione nel posto di lavoro - Esclusione - Tutela indennitaria - Sussistenza
L'incompletezza della comunicazione di cui al comma 9, L. n. 223/1991 costituisce "violazione delle procedure" previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, dando luogo al "regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18" e, quindi, alla tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità.
Letteralmente essa non ha a che fare con il "caso di violazione dei criteri di scelta", legittimante la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria, in quanto tale caso si ha non nell'ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive.
Rito Fornero - Reclamo - Analogia con l'appello - Sussistenza - Conseguenze - Principio della cd. "doppia conforme" ex art. 348 ter, c. 5, c.p.c. - Applicabilità - Vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, c. 1, n. 5, c.p.c. - Inammissibilità
Il vizio di "omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti" non può essere denunciato (per i giudizi di appello instaurati successivamente al 7/08/2012, data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 22/06/2012, n. 83) con ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter ult. co. c.p.c.). La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi da 58 a 60, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata.
Nota
La Corte d'Appello di Bologna, ha confermato la sentenza di primo grado la quale, accertata l'incompletezza della comunicazione finale all'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 - e, dunque, la sussistenza di una violazione esclusivamente di "tipo formale" - aveva, dichiarato risolto il rapporto di lavoro, con condanna della società al pagamento di 20 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, a titolo di indennizzo ex art. 18, c. 7, L. n. 300/1970 (così come novellato dalla l. n. 92/2012). Nel caso in esame, la società aveva redatto una graduatoria indicando i nominativi di tutti i lavoratori posti a confronto, ma senza riportare, per ciascuno di detti lavoratori, né i punteggi loro attribuiti in applicazione dei singoli criteri di scelta adottati, né il punteggio finale complessivo dagli stessi conseguito.
Avverso la predetta sentenza, la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che alla fattispecie in esame è applicabile ratione temporis l'art. 1, c. 46, L. n. 92/2012, norma che distingue espressamente tra: a) la "violazione dei criteri di scelta", cui si applica l'art. 18, c. 4, Stat. Lav. (e, quindi, la tutela reintegratoria con condanna al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle 12 mensilità); b) la "violazione delle procedure richiamate dall'art. 4, c. 12, L. n. 223/1991", cui si applica il terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18, ovvero esclusivamente l'indennità risarcitoria oscillante tra un minimo di dodici ed un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte di legittimità ha chiarito che: la fattispecie sub a) sussiste allorquando i criteri di scelta siano illegittimi (perché adottati in violazione della legge) o illegittimamente applicati (in quanto attuati in difformità delle previsioni legali o collettive); la fattispecie sub b), invece, sussiste nell'ipotesi di mera incompletezza formale della comunicazione di cui all'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991.
Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che la fattispecie in esame fosse sussumibile nell'ipotesi sub b), e, dunque, nell'ambito della tutela di tipo esclusivamente indennitario, confermando così le pronunce dei giudici di primo grado e della Corte territoriale.
La Corte ha poi respinto i dubbi di legittimità costituzionale sollevati da parte ricorrente per asserita violazione del diritto di difesa in giudizio della lavoratrice e per irragionevolezza della disciplina (per lesione dell'art. 3 Cost.), in quanto la Corte di merito aveva già accertato - con valutazione di merito insindacabile in Cassazione - che la lavoratrice era stata posta in condizioni di sapere, fin dall'esito della procedura di mobilità: quali erano i criteri di scelta utilizzati dalla società; come in concreto gli stessi erano stati applicati; lo specifico punteggio complessivo alla stessa attribuito; come la società aveva determinato tale punteggio ed i nominativi dei singoli colleghi con i quali era stata fatta la comparazione; fatti tutti che non erano mai stati specificamente contestati.
Del resto, la Suprema Corte ha puntualmente osservato che il sindacato su tali fatti è completamente precluso in Cassazione, in ragione del principio della cd. "doppia conforme", atteso che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 348 ter, c. 5., c.p.c. - norma applicabile anche al reclamo, che deve ritenersi disciplinato dalla normativa generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito ove non espressamente derogata (Cass. 29/10/2014 n. 23021; Cass. 03/03/2016, n. 4223) - il vizio di "omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra la parti" non può essere denunciato nell'ipotesi in cui il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado.
Licenziamento collettivo e comunicazione di avvio della procedura
Cass. Sez. Lav. 18 maggio 2016, n. 10242
Pres. Napoletano; Rel. Cavallaro; Ric. B S.p.A..; Controric. S. M.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - In genere - Comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, legge n. 223 del 1991 - Funzione - Legittimazione del lavoratore a farne valere l'incompletezza - Sussistenza - Fondamento
In tema di collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, l. n. 223/1991 rappresenta un adempimento essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro. E' per questa ragione che il lavoratore è legittimato a far valere l'incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull'adeguatezza della comunicazione, non sana "ex se" il "deficit" informativo.
Nota
La Corte d'Appello di Venezia aveva confermato la decisione del Giudice di prime cure che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato alla ricorrente all'esito di una procedura di licenziamento collettivo e condannato la società datrice di lavoro alla reintegra e al risarcimento del danno nei confronti della lavoratrice.
In particolare, la procedura di licenziamento collettivo era stata ritenuta viziata dall'incompleta comunicazione di avvio con la quale erano stati esposti, come motivi che avevano determinato l'esubero di personale, la riduzione del volume di affari connessa alla scadenza di alcuni brevetti di prodotti di punta e non anche il progetto di fusione tra la datrice di lavoro ed altra società. Ragione, quest'ultima, risultante da un verbale di CdA di quest'ultima società.
Sempre secondo la Corte d'Appello il vizio descritto aveva determinato una compromissione dei poteri di controllo dei sindacati tale da rendere irrilevante la successiva conclusione di un accordo con le organizzazioni sindacali al fine di sanare tale illegittimità.
Contro tale decisione ricorreva in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, per quanto qui interessa, che la Corte territoriale era incorsa in errore in primo luogo perché aveva considerato irrilevante la sottoscrizione dell'accordo sindacale nel corso della procedura al fine di sanare i vizi della stessa; in secondo luogo perché i motivi emersi dalla delibera di cui sopra e non inseriti nella comunicazione di avvio della procedura non inficiavano la legittimità della stessa, in quanto si trattava di motivi meramente "interni" e, come tali, gli stessi non avrebbero dovuto essere valutati dal giudice. Il sindacato di quest'ultimo, sempre secondo la società, avrebbe dovuto limitarsi all'effettività e sussistenza dei motivi esplicitati.
La Cassazione ha ritenuto infondati tali motivi e rigettato il ricorso. Secondo la Suprema Corte, infatti, "la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, l. n. 223/1991 rappresenta un adempimento essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro. E' per questa ragione che il lavoratore è legittimato a far valere l'incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull'adeguatezza della comunicazione, non sana "ex se" il "deficit" informativo" causato da una comunicazione incompleta.
Nel caso di specie la Corte ha ritenuto quindi corretta la decisione della Corte territoriale poiché, essendo stato accertato dai giudici di merito che i motivi della procedura erano da ricercarsi nella funzionalità della riduzione del personale alla imminente fusione per incorporazione, la procedura posta in essere era da ritenersi insanabilmente viziata in quanto la comunicazione di avvio della procedura deve esplicitare in maniera esaustiva tutte le ragioni alla base della stessa.
Impianti di videosorveglianza e utilizzo dei relativi dati a fini disciplinari
di Pasquale Dui e Luigi Antonio Beccaria
Pubblico impiego: doverosa la ripetizione della retribuzione indebita
di Armando Montemarano