Rassegne di giurisprudenza

Rassegna di Cassazione

Cessione del contratto di lavoro: può essere anche tacita, per fatti concludenti<br/>Licenziamento collettivo e criteri di scelta<br/>Differimento della contestazione disciplinare <br/>Licenziamento per giusta causa del dirigente<br/>Amministratore di società e lavoro subordinato<br/>

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Cessione del contratto di lavoro: può essere anche tacita, per fatti concludenti

Cassazione sezione lavoro, 21 settembre 2022, n. 27681

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. A.C.; Contr. A. S.r.l. e C. S.r.l.

Cessione del contratto – Art. 1406 cod. civ. – Consenso del lavoratore ceduto – Consenso tacito – Fatti concludenti – Ammissibilità

Il consenso alla cessione del contratto, il quale può anche essere successivo all'atto intervenuto tra cedente e cessionario, può essere, oltre che espresso, anche tacito, purché venga manifestata in maniera adeguata la volontà di porre in essere una modificazione soggettiva del rapporto.

NOTA

La Corte d'appello di Caltanissetta, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva le domande di un lavoratore volte a far dichiarare la nullità o comunque l'illegittimità della cessione del suo contratto di lavoro avvenuta tra le due società convenute in giudizio, con diritto del medesimo alla prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della società originaria datrice di lavoro e condanna di quest'ultima alla reintegrazione nel posto di lavoro. Ai fini del rigetto dell'appello del lavoratore e, quindi, confermando l'esistenza di una valida ed efficace cessione del contratto del lavoratore, la Corte territoriale valorizzava il fatto che egli aveva sottoscritto la lettera di assunzione alle dipendenze della società cessionaria e che la sua volontà di accettare, anche tacitamente, la cessione del suo contratto poteva evincersi da una serie di elementi univoci e incontroversi tra le parti, ovvero (i) dal fatto che il lavoratore, successivamente alla "cessione", aveva lavorato alle dipendenze della cessionaria ininterrottamente per un anno sino a quando era stato licenziato per giusta causa e (ii) dall'analisi dell'impugnativa di tale licenziamento che era indirizzata unicamente nei confronti della cessionaria, ritenuta, evidentemente, il datore di lavoro.Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione, affidato a tre motivi, lamentando, sostanzialmente che la Corte di merito aveva erroneamente qualificato la vicenda come una cessione di contratto trattandosi, a suo dire, di un trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c. e che, in ogni caso, la fattispecie di cui al 1406 c.c. difettava, nel caso concreto, del consenso del lavoratore ceduto.La Cassazione, per quel che rileva, chiarisce anzitutto che «Perché possa configurarsi una cessione di contratto ai sensi dell'art. 1406 c.c. è sufficiente l'accordo bilaterale tra cedente e cessionario al quale segua temporalmente il consenso del contraente ceduto, che – costituendo elemento essenziale del negozio di cessione del contratto, il quale richiede la necessaria partecipazione del cedente, del cessionario e del ceduto – può essere anche successivo all'accordo tra cedente e cessionario purché, nel momento di tale adesione non sia venuto meno l'accordo originario al quale essa vuole aggiungersi per perfezionare il contratto, e permangano inoltre tutte le condizioni della cessione, che deve avere per oggetto la complessiva posizione attiva e passiva del contraente ceduto».Con riferimento al caso di specie, quindi, la Suprema Corte, dopo aver richiamato il principio di cui in massima circa l'ammissibilità, ai fini della legittimità della cessione di contratto ex art. 1406 cod. civ., di un consenso del lavoratore che non sia espresso per iscritto, bensì "per fatti concludenti", ritiene l'iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale immune da vizi. La Cassazione evidenzia, infatti, come la Corte d'Appello abbia correttamente ravvisato, alla luce delle emergenze istruttorie, sia nella condotta delle società e sia nella condotta del lavoratore, elementi significativi della volontà della cessione del contratto di lavoro e abbia altrettanto correttamente rilevato come, a prescindere dalla errata comunicazione della originaria datrice di lavoro formulata ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., esistessero fatti concludenti significativi della volontà della datrice di lavoro di far sì che tutti i dipendenti in servizio presso l'unità produttiva, tra i quali il lavoratore ricorrente, passassero alle dipendenze della società cessionaria. Ricostruzione, questa – ritiene la Cassazione – avvalorata dal fatto che contemporaneamente, ossia lo stesso giorno del "nuovo rapporto" alle dipendenze della cessionaria, quest'ultima faceva presente ai due dipendenti che il loro consenso era comunque necessario ai fini dell'assunzione presso tale ditta, invitandoli a sottoscrivere i contratti di assunzione nella stessa data, cosa che avvenne effettivamente tanto che i due dipendenti iniziarono da subito a lavorare per la nuova parte datoriale, cessando ogni contatto lavorativo con il precedente datore e mantenendo ogni trattamento economico e normativo già goduto presso il datore originario. «I giudici di appello – afferma conclusivamente la Suprema Corte – ai fini del consenso alla cessione del contratto, hanno, pertanto, correttamente valorizzato, oltre al dato di fatto incontestato della sottoscrizione della lettera di assunzione del lavoratore alle dipendenze della cessionaria, l'esecuzione del contratto di lavoro con la predetta società per la durata di oltre un anno».Alla luce di quanto sopra, la Cassazione rigetta il ricorso del lavoratore con condanna alle spese di lite.  

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cassazione sezione lavoro, 9 settembre 2022, n. 26683

Pres. Doronzo; Rel. Michelini; Ric. A. S.p.A.; Controric. B.F.

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Reparto soppresso – Comparazione – Necessità – Professionalità equivalenti – Fungibilità – Sussiste

Il datore non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli addetti a un reparto se detti lavoratori sono idonei – per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti.

NOTA

La Corte d'sppello di Roma, in parziale riforma della sentenza del giudice di prime cure, annullava il licenziamento intimato al lavoratore in esito alla procedura di licenziamento collettivo, disponeva la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e il pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione, comunque non superiore a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.In particolare, la Corte di Appello di Roma riteneva illegittima l'applicazione dei criteri di scelta previsti in base agli accordi sindacali stipulati, in quanto non c'era stata comparazione con altri lavoratori.Avverso tale decisione il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione.La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale. Nello specifico la Cassazione ritiene che «la selezione del personale in esubero deve avvenire sulla base di oggettive esigenze aziendali, tenuto conto della dotazione di professionalità specifiche, infungibili rispetto alle altre; inoltre, devono essere considerate, qualora il lavoratore ciò deduca espressamente, anche le altre mansioni in precedenza svolte in diversi uffici aziendali, dovendo la nozione di fungibilità e di professionalità essere intesa con riferimento non soltanto alle mansioni attuali, ma anche assolte presso altre unità, che abbiano reso il lavoratore idoneo anche per queste altre, per acquisita esperienza e per pregresso svolgimento». La Corte di Cassazione conferma quindi che il datore di lavoro non ha dimostrato l'infungibilità delle precedenti mansioni del lavoratore e rigetta il ricorso. 

Differimento della contestazione disciplinare

Cassazione sezione lavoro, ordinanza 21 settembre 2022, n. 27680

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. G.N.; Contr. A. S.p.A

Contestazione disciplinare – Giudizio penale – Differimento della contestazione a seguito di rinvio a giudizio – Tardività – Esclusione

È legittimo il differimento della contestazione disciplinare fino al rinvio a giudizio del dipendente nel procedimento penale in ragione del fatto che la società datrice di lavoro non dispone di poteri d'indagine utili ad accertare i fatti compiuti dai lavoratori al di fuori dei locali aziendali.

NOTA

La Corte d'appello di Palermo, accogliendo il reclamo proposto dalla società datrice di lavoro e in riforma della sentenza del Tribunale, rigettava la domanda del lavoratore volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli nel gennaio del 2018.Nella fattispecie, la società aveva contestato al lavoratore di avere eseguito, durante l'orario di lavoro, un allaccio abusivo alla rete idrica pubblica installando nel marzo del 2011 un contatore privato presso un esercizio commerciale, ricevendo denaro per il servizio reso, ed inoltre, di avere ricevuto varie somme di denaro da terzo soggetto per risolvere il problema del pagamento delle bollette arretrate e di interruzione nell'erogazione dell'acqua.La Corte territoriale, diversamente dal Tribunale che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per tardività della contestazione ed insussistenza dei fatti contestati, ha giudicato infondata l'eccezione del lavoratore circa la tardività della contestazione disciplinare rilevando che, sebbene i fatti risalissero agli anni 2008 – 2012, non era emerso in giudizio che il datore di lavoro ne avesse avuto conoscenza prima del 20.1.2017, quando era stata comunicata alla società la richiesta di rinvio a giudizio contenente la dettagliata descrizione dei fatti di rilevanza penale contestati al lavoratore. La Corte d'appello rilevava, del resto, che la società aveva legittimamente comunicato al lavoratore, con nota del marzo del 2017, di riservarsi, in relazione al procedimento penale in corso, di adottare ogni provvedimento al momento dell'acquisizione gli elementi occorrenti e quindi, a seguito del rinvio a giudizio disposto dall'autorità giudiziaria, aveva provveduto in data 8.1.2018 alla contestazione disciplinare, seguita dal licenziamento intimato il 22.1.2018.Avverso la sentenza della Corte territoriale il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, con un primo motivo di ricorso, che quand'anche si facesse coincidere la conoscenza dei fatti di rilievo disciplinare con la comunicazione alla società della richiesta di rinvio a giudizio (20.1.2017), il principio di immediatezza della contestazione disciplinare sarebbe stato ugualmente violato in quanto la Corte d'appello così decidendo avrebbe dato maggior peso alle esigenze di certezza del datore di lavoro sui fatti da contestare, anziché al diritto di difesa del lavoratore e alla tutela dell'affidamento di questi sulla rinuncia del datore all'esercizio del potere disciplinare. Sul punto, il ricorrente rileva che tra il momento di commissione dei fatti e la loro contestazione sono trascorsi circa dieci anni e che il lasso di tempo intercorso fino alla contestazione disciplinare (8.1.2018) gli avrebbe precluso un effettivo esercizio del diritto di difesa.Con altro motivo di ricorso, il lavoratore ha poi criticato la sentenza perché la Corte d'appello ha utilizzato il criterio del prudente apprezzamento delle prove al fine di valutare atti del procedimento penale (dichiarazioni, intercettazioni, etc.) che a dire del ricorrente sarebbero stati disposti in violazione delle norme del processo penale.La Suprema Corte ritiene entrambi i motivi di ricorso non meritevoli di accoglimento e li rigetta.Sul primo motivo di ricorso la Corte di Cassazione ricorda, innanzitutto, che in materia di licenziamento disciplinare, il criterio dell'immediatezza della contestazione, quale esplicazione del generale precetto di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro, va «inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l'accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un'unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, ovvero quando la complessità dell'organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell'organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento dei fatti e, quindi, di adozione dei relativi provvedimenti» (Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007; Cass. n. 19159 del 2006) e che la valutazione in ordine alle tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato (Cass. n. 19115 del 2013). Ciò ribadito, la Suprema Corte rileva come la Corte territoriale abbia ritenuto legittimo il differimento della contestazione disciplinare fino al rinvio a giudizio del dipendente nel procedimento penale in ragione del fatto che la società datrice di lavoro non disponeva di poteri d'indagine utili ad accertare i fatti compiuti dal lavoratore fuori dai locali aziendali. Peraltro, la Suprema Corte sottolinea come la Corte d'appello abbia considerato che la società datoriale avesse tempestivamente informato il lavoratore della riserva di contestazione disciplinare.Quanto all'ulteriore motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ritiene che la Corte d'Appello abbia deciso conformemente ai principî di legittimità secondo cui il giudice di merito «può utilizzare per la formazione del proprio convincimento anche gli elementi istruttori raccolti in un processo tra le parti o altre parti, sempre che siano acquisiti al giudizio della cui cognizione è investito; ne consegue che è irrilevante l'inutilizzabilità nel diverso grado o nel distinto processo di provenienza, poiché a rilevare è l'effettiva utilizzabilità dell'elemento istruttorio nella causa in cui esso viene acquisito» (Cass. n. 31312 del 2021). Ribadisce poi la Corte di Cassazione che «le sommarie informazioni assunte durante la fase delle indagini preliminari, ritualmente acquisite nel contraddittorio delle parti, sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell'art. 116 c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche» (Cass. n. 18025 del 2019; n. 1593 del 2017).

Licenziamento per giusta causa del dirigente

Cassazione sezione lavoro, 21 settembre 2022, n. 27682

Pres. Raimondi; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. E.T.; Controric. F.C.N.O.E.C. e F.C. s.r.l.

Licenziamento dirigente – Giusta causa – Plurime condotte – Legittimità – Valutazione anche solo di alcune di esse – Sufficienza

È legittimo il licenziamento per giusta causa del dirigente che abbia, all'insaputa dei datori di lavoro, costituito una società operante nel medesimo settore, distratto dalle casse somme ingenti, accreditandole in assenza di titoli giustificativi in favore della propria società e richiesto rimborsi spese non autorizzati e relativi ad esborsi fatti a titolo personale. Si tratta di una condotta di abuso della posizione dominante di dirigente e della fiducia assoluta riposta da tutti gli organi sociali sulla qualità dell'operato di colui che riveste un ruolo di vertice.

NOTA

La fattispecie oggetto della sentenza in commento concerne il licenziamento per giusta causa di un dirigente che, abusando della posizione dominante e della fiducia assoluta riposta nel suo operato da tutti gli organi sociali, aveva: i) creato, all'insaputa dei datori di lavoro, una società operante nel medesimo settore di uno dei datori di lavoro; ii) distratto dalle casse di uno dei datori somme ingenti, accreditandole in assenza di titoli giustificativi in favore della società da lui creata e di altra società compartecipata dal medesimo con la moglie; iii) richiesto rimborsi di spese non autorizzati e relativi ad esborsi fatti a titolo personale; iv) stornato dipendenti e collaboratori di una delle società datrici di lavoro. In particolare, la Corte d'appello di Torino ha ritenuto nulli i contratti sui quali il dirigente aveva fondato la propria difesa dagli addebiti disciplinari, in quanto mai consapevolmente sottoscritti dal legale rappresentante delle società datrici di lavoro, venutone a conoscenza solo dopo l'avvio delle iniziative disciplinari e, dunque, ha accertato la legittimità dei due licenziamenti intimati per giusta causa.Avverso la decisione della Corte d'appello di Torino proponeva ricorso per Cassazione il dirigente.La Suprema Corte ha ritenuto la maggior parte dei motivi di ricorso inammissibili in quanto consistenti in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali e della ricostruzione della fattispecie operata dalla Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità.Per quel che qui interessa, il dirigente ha contestato altresì che la Corte territoriale avesse ritenuto connotata di un disvalore idoneo a giustificare il licenziamento, la sola contestazione relativa agli esborsi ed all'uso della carta di credito, senza alcuna motivazione sulla rilevanza degli altri addebiti. La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo rimarcando l'adeguatezza della motivazione della Corte territoriale che, correttamente, ha effettuato una valutazione globale degli addebiti contestati. Infatti, ha osservato la Suprema Corte, è ben possibile per il giudice, in applicazione del principio di sufficienza, individuare, nel novero degli addebiti posti a fondamento del licenziamento intimato dal datore di lavoro, anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifichi la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 c.c. La Corte ha inoltre ritenuto irrilevante la titolarità della carta di credito oggetto di contestazione, non essendo tale circostanza idonea a determinare un diverso esito della controversia. Ciò che, infatti, è stato correttamente valutato dalla Corte d'appello di Torino al fine di considerare legittimo il licenziamento è stato il ruolo di vertice pacificamente ricoperto dal dirigente, il livello altissimo di affidamento sulla qualità del suo operato e i rimborsi di spese per importi estremamente elevati senza alcun giustificativo di spesa.Pertanto la Corte ha rigettato il ricorso.

Amministratore di società e lavoro subordinato

Cassazione sezione VI civile, 19 settembre 2022, n. 27360

Pres. Leone; Rel. Calafiore; Ric. I.A. + L.4.S. Soc. Coop. Agr.; Controric. Inps

Società di capitali – Amministratore – Amministratore delegato – Rapporto di lavoro subordinato – Compatibilità – Vincolo di subordinazione – Necessità

Il principio di compatibilità di un rapporto di lavoro subordinato fra un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, ovvero dell'amministratore delegato, e la società stessa, poggia sulla prova della sussistenza del vincolo di subordinazione e pertanto della soggezione, nonostante la carica sociale ricoperta, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso.

NOTA

La Corte d'Appello di Catania, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, condannava l'Inps a restituire alla società cooperativa i contributi versati in relazione al lavoratore in quanto non dovuti. Il Tribunale di primo grado aveva, invece, rigettato l'opposizione della società cooperativa all'accertamento dell'Inps all'esito del quale era stato disconosciuto il rapporto di lavoro subordinato formalmente intercorso tra la società cooperativa e il proprio lavoratore – amministratore. Entrambi i giudici, peraltro, avevano ritenuto che all'esito dell'istruttoria fosse emersa la sostanziale coincidenza tra l'organo societario, dotato di potere amministrativo, e l'asserito lavoratore subordinato, con conseguente impossibilità logica di ritenere configurabile l'eterodirezione di cui all'art. 2094 cod. civ., necessaria ai fini della subordinazione.Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorrono per Cassazione, nei confronti dell'Inps , sia il lavoratore– amministratore che la società cooperativa, eccependo che i giudici di merito avessero errato nell'applicare alla fattispecie i principi giurisprudenziali inerenti alle società di persone, senza tener conto della peculiare disciplina della figura del socio lavoratore di cooperativa, nonché avessero esaminato solo in parte gli elementi probatori offerti, omettendo di esaminare documenti e dichiarazioni testimoniali dai quali sarebbe emersa l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.La Corte di Cassazione, seppure dichiarando inammissibili i motivi di ricorso, conferma che la sentenza impugnata avesse applicato correttamente i criteri generali e astratti di individuazione e determinazione del carattere della subordinazione, sia pure attenuata, da applicare al caso concreto. In particolare, la Corte ribadisce come il principio di compatibilità di un rapporto di lavoro subordinato tra un amministratore di una società di capitali, ovvero dell'amministratore delegato, e la società stessa, si basa sulla prova della sussistenza della soggezione dell'amministratore, nonostante la carica sociale ricoperta, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso (in senso conforme, Cass. 24972/2013, Cass. 19596/2016). L'esistenza di tale vincolo di subordinazione non era stata provata in giudizio, con conseguente rigetto delle domande della società cooperativa e del suo lavoratore – amministratore.

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