Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo<br/>Licenziamento per giustificato motivo soggettivo<br/>Licenziamento per giusta causa<br/>Licenziamento per superamento del periodo di comporto<br/>Licenziamento disciplinare

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci



LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

Cass. Sez. Lav. 20 aprile 2023, n. 10623

Pres. Doronzo; Rel. Pagetta; Ric. S.E.; Controric. R. S.r.l.

Licenziamento – Giustificato motivo soggettivo – Rifiuto sistematico di eseguire il lavoro straordinario – Insubordinazione – Configurabilità – Legittimità del recesso

È legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo del lavoratore che si rifiuti sistematicamente di eseguire prestazioni di lavoro straordinario in spregio alla direttiva aziendale adottata per ragioni produttive conformemente alle disposizioni del contratto collettivo applicabile. Si è, infatti, in presenza di un prolungato contegno del dipendente improntato all'assenza di spirito collaborativo, alla pervicace violazione di un obbligo imposto da una previsione aziendale nonché alla plateale noncuranza degli interessi della impresa datrice di lavoro.

NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore proponeva azione in giudizio per sentir dichiarare l'insussistenza della giusta causa e, comunque, l'illegittimità del licenziamento al medesimo irrogato dal datore di lavoro per aver il dipendente rifiutato l'esecuzione del lavoro straordinario, in spregio alla direttiva aziendale che ne imponeva la prestazione per ragioni produttive.
I Giudici di merito, ritenuto sussistente un notevole inadempimento da parte del lavoratore – e convertito il predetto licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo – ne dichiaravano la legittimità, condannando la società al pagamento, a favore del ricorrente, dell'indennità sostitutiva del preavviso.
Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte il lavoratore. Principalmente e tra il resto, quest'ultimo lamentava la violazione della disciplina di legge ed ex CCNL in materia di lavoro straordinario, contestando, in particolare, l'interpretazione del CCNL nel senso di consentire alla società di disporre ad libitum delle prestazioni di lavoro straordinario nei confronti di un'indistinta platea di lavoratori, purché nel limite di ottanta ore annue, e rilevando come – diversamente da quanto ritenuto dai Giudici di merito – la richiesta datoriale di effettuazione di lavoro straordinario necessitasse, in applicazione delle disposizioni collettive, il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, sia sotto il profilo dell'informazione delle stesse che dell'acquisizione del relativo assenso preventivo. Lamentava, inoltre, il ricorrente, l'insussistenza della recidiva disciplinare al medesimo contestata e, comunque, l'ascrivibilità della propria condotta tra le ipotesi sanzionate dal contratto collettivo con una mera misura conservativa, e non con il licenziamento.
A fronte di tali censure, la Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, rilevando, anzitutto, la «correttezza della interpretazione della Corte di merito circa la possibilità per la parte datoriale di richiedere al lavoratore prestazioni di lavoro straordinario nei limiti della c.d. quota esente, senza preventiva consultazione o informazione alle organizzazioni sindacali», nel rispetto dei limiti orari previsti e garantendo il dovuto preavviso.
Quanto, agli ulteriori motivi di ricorso, la Corte li ha reputati parimenti inaccoglibili, ritenendo la recidiva non decisiva al fine dell'applicabilità della sanzione espulsiva, e ciò in quanto l'esistenza di precedenti disciplinari non rappresentava un elemento costitutivo della fattispecie.
In merito, poi, all'«assenza di specifica previsione collettiva nel senso della sanzionabilità della concreta fattispecie con misura espulsiva», la Suprema Corte ha reputato tale circostanza «ininfluente ai fini della configurazione del notevole inadempimento posto alla base del giustificato motivo di licenziamento», e ciò considerato il «carattere meramente esemplificativo della previsioni collettive» nonché, comunque, la gravità della condotta ed il disagio organizzativo determinato dal dipendente alla società, entrambi positivamente accertati nei precedenti gradi del giudizio.


LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO


Cass. Sez. Lav. ord. 27 aprile 2023, n. 11174

Pres. Raimondi; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo

Licenziamento – Giustificato motivo oggettivo – Scarso rendimento per eccessiva morbilità – Superamento del comporto – Necessità

Lo scarso rendimento e l'eventuale disservizio aziendale determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In tal senso, il recesso intimato prima del superamento di detto periodo di comporto è nullo per violazione della norma imperativa (art. 2110, comma 2, c.c.) ed in tale prospettiva non rileva in che modo l'alternarsi della malattia ai periodi di presenza sul lavoro abbia potuto incidere sull'efficienza dell'organizzazione datoriale e sui risultati da conseguire.

NOTA
Un lavoratore ha impugnato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli per «la non proficuità della prestazione lavorativa resa in considerazione delle modalità e del rilevante numero delle assenze realizzate» (808 giornate lavorative in sei anni), chiedendo l'accertamento dell'illegittimità del recesso e la condanna della società a reintegrarlo nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno. Il giudice di primo grado ha accolto parzialmente il ricorso, accertando l'illegittimità del licenziamento e dichiarando il rapporto di lavoro risolto alla data del licenziamento con la condanna della società al pagamento dell'indennità risarcitoria pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La Corte d'Appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale, ha annullato il licenziamento e condannato la datrice di lavoro a reintegrare il lavoratore ed a corrispondergli una indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Società lamentando «la violazione e falsa applicazione dell'art. 2110 c.c. e dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966 oltre che dell'art. 41 Cost.». La datrice di lavoro sostiene che «erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che il licenziamento intimato al lavoratore fosse riconducibile all'ipotesi prevista dall'art. 2110 c.c.». La società ricorrente insiste nel ribadire che «una cosa è il licenziamento per superamento del periodo di comporto, in relazione al quale il datore di lavoro può recedere provando solo il protrarsi dell'assenza per malattia oltre il massimo consentito; altra cosa è invece il licenziamento intimato a cagione di ragioni oggettive integrate dal modo, dal tempo e dalla durata delle assenze che finiscano per incidere apprezzabilmente sulla prestazione del lavoratore rendendola inutilizzabile o comunque non utile a prescindere dall'avvenuto superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro in relazione alla malattia».
La Corte ha rigettato il ricorso ricordando il costante orientamento secondo il quale: «quando, come nel caso in esame, vi sia un collegamento tra il licenziamento e le assenze per malattia del lavoratore le regole dettate dall'art. 2110 c.c. prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e si sostanziano nella regola consistente nell'impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (c.d. comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice. Nell'ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro, a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce, e del lavoratore, a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento, solo quel superamento è condizione di legittimità del recesso. Lo scarso rendimento e l'eventuale disservizio aziendale, determinato dalle assenze per malattia del lavoratore, infatti, non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo». Anche le Sezioni Unite hanno sul punto chiarito che: «il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c.».



LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav. 19 aprile 2023, n. 10435

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Mucci; Ric. S. S.r.l.; Controric P.A.

Lavoro subordinato – Licenziamento – Illegittimità – Comportamento solo verbale e senza danni – Insubordinazione poco grave – Configurabilità – Indole polemica della lavoratrice – Irrilevanza – Sanzione conservativa – Necessità

È illegittimo il licenziamento per giusta causa dell'operatrice di una rsa che si è rivolta al suo coordinatore, voltandogli le spalle, esclamando "ma va, va" ed accompagnando siffatta espressione con un gesto derisorio del braccio. Il comportamento della lavoratrice, rimasto a livello verbale nell'ambito di uno scambio di vedute e non avendo cagionato alcun pericolo o danno per utenti o colleghi e per il patrimonio aziendale, configura un'insubordinazione non connotata da particolare gravità.

NOTA
Nel caso di specie la lavoratrice, dipendente di rsa, veniva licenziata per motivi disciplinari a seguito di una insubordinazione grave. La dipendente, infatti, rivolgendosi al proprio superiore gerarchico che le aveva appena rammentato le corrette procedure di messa in sicurezza della sala da pranzo, da lei nell'occasione inosservate, gli voltava le spalle ed allontanandosi da lui mentre le stava parlando, esclamava: "Ma va, va", accompagnando altresì l'esclamazione con ampio e derisorio gesto del braccio.
La dipendente impugnava il licenziamento e la società veniva dapprima condannata al pagamento di 24 mensilità a titolo di risarcimento (con rapporto dichiarato risolto dal giudice) dal Tribunale di Velletri e successivamente – dalla Corte d'appello di Roma in sede di impugnazione – alla reintegra della lavoratrice con risarcimento pari a 12 mensilità. La Corte di Roma, in particolare, riteneva che la condotta della lavoratrice rientrasse tra quelle per le quali il CCNL per il personale dipendente delle RSA prevedeva la sanzione conservativa.
Contro tale decisione ricorreva in Cassazione la società sostenendo che la Corte d'appello avesse errato nel ritenere che la condotta sopra descritta non integrasse il requisito della gravità e conseguentemente non potesse fondare il licenziamento per giusta causa della lavoratrice. A tale fine, riteneva la società, era da valutare anche la personalità della lavoratrice molto poco incline alla collaborazione.
La Cassazione ha respinto le censure della società e rigettato il ricorso. In particolare, con riferimento alla gravità della condotta non sono stati rilevati vizi logici o contraddizioni nella motivazione della Corte territoriale, la quale «ha tenuto conto di ogni aspetto concreto della vicenda, evidenziando che si era trattato di un comportamento rimasto a livello verbale nell'ambito di uno scambio di vedute contrapposte tra un operatore ed il suo coordinatore; è stato, poi, sottolineato che la condotta, oltre appunto a non essere connotata da violenza, né fisica né verbale, non aveva determinato ripercussioni specifiche e significative a livello aziendale né era emerso alcun pericolo o danno per utenti e/o colleghi e/o per il patrimonio aziendale». Quanto alla personalità della lavoratrice, la stessa non era stata oggetto di contestazione disciplinare e quindi non era rilevante.


LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

Cass., Sez. Lav., ord. 27 aprile 2023, n. 11136

Pres. Doronzo; Rel. Pagetta; Ric. P.T.; Contr. Omissis

Licenziamento – Periodo di comporto – Assenze per malattia e infortunio – Computabilità – Limiti – Assenza di responsabilità ex art. 2087 cod. civ. – Necessità

In tema di licenziamento per superamento del comporto, incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

NOTA
La Corte di appello di Venezia, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva la domanda della lavoratrice volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatole dalla datrice di lavoro.
La Corte territoriale riteneva che «nel periodo di comporto, pacificamente superato, dovevano essere computati anche i giorni di assenza per malattia conseguenti all'infortunio occorso alla P., addetta alla mensa nell'ambito del servizio di ristorazione appaltato alla X s.r.l. da Y s.p.a., in conseguenza dello scoppio di una vetrinetta termica di proprietà della committente, essendo emersa la assoluta imprevedibilità dell'evento alla luce del grado di diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali del tempo», precisando che «la committente in sede di appalto aveva attestato di avere consegnato le attrezzature, tra cui la vetrinetta, in buono stato e che le stesse erano conformi alla normativa», ed evidenziando che «dal documento di valutazione dei rischi emergeva l'assenza di un rischio specifico connesso alla vetrinetta in capo agli addetti alla ristorazione».
La lavoratrice proponeva ricorso per cassazione avverso la pronuncia della Corte d'appello.
La Corte di cassazione rileva che il proprio orientamento consolidato è fermo nel ritenere che «nell'ipotesi in cui il danno sia stato causato al lavoratore da cose che il datore di lavoro aveva in custodia e, a maggior ragione, in quella in cui lo stesso datore, in ragione dell'attività da lui esercitata, abbia ricevuto in consegna un oggetto che il lavoratore sia stato incaricato di elaborare, sussiste a carico del datore di lavoro (sempre che siano certi l'esistenza del danno e il rapporto di causalità con l'ambiente lavorativo) una presunzione di colpa, derivante dalla concorrente applicabilità degli artt. 2051 e 2087 cod.civ., che può essere superata solo dalla dimostrazione dell'avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e della natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso».
In sostanza la Suprema Corte conferma l'inclusione, nel periodo del comporto, dei giorni di assenza per infortunio sul lavoro della lavoratrice, dovuto «allo scoppio di una vetrinetta termica in custodia a carico della parte datoriale», considerato che si trattava di un evento assolutamente «non prevedibile in considerazione della diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali applicabili al tempo» dal datore di lavoro.
Conclusivamente, la Suprema Corte rigetta il ricorso della lavoratrice e la condanna alle spese di giudizio.


LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

Cass. Sez. Lav., 21 aprile 2023, n. 10802

Pres. Raimondi; Rel. Ponterio; Ric. Omissis S.p.A.; Controric. F.B.

Licenziamento disciplinare – CCNL Poste (art. 55, co. 4) – Termine per irrogare il licenziamento (30 gg.) – Superamento – Violazione procedimentale – Sussistenza – Conseguenze – Tutela indennitaria ex art. 18, co. 6 L. 300/70 – Limite – Notevole ritardo – Tutela indennitaria ex art. 18, co. 5 L. 300/70 – Applicazione

In tema di licenziamento disciplinare, ove la legge o le norme di contratto collettivo prevedano dei termini per la contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso – ricadente "ratione temporis" nella disciplina dell'art. 18 St. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012, comma 42 dell'art. 1 –, il mancato rispetto dei detti termini integra violazione di natura procedimentale e comporta l'applicazione della sanzione indennitaria di cui al comma 6 dello stesso art. 18 St. lav., trovando invece applicazione la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, nel caso in cui sia accertato un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso.

NOTA
La Corte d'Appello di Catanzaro, nel confermare integralmente la sentenza resa all'esito del primo grado di giudizio, aveva giudicato illegittimo il licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore oltre il termine previsto dalla contrattazione collettiva, accordando la reintegrazione attenuta di cui all'art. 18, co. 4, St. Lav.
Secondo la Corte distrettuale, infatti, l'art. 55, co. 4, CCNL Poste Italiane vigente ratione temporis, disponendo l'archiviazione del procedimento disciplinare nelle ipotesi (come quella in esame) in cui il provvedimento risolutivo fosse stato adottato dal datore oltre i 30 giorni dal termine ultimo per l'invio delle giustificazioni, non poteva che comportare – alla luce del regime sanzionatorio approntato dalla normativa staturaria – l'applicazione della tutela reale.
Contro la predetta pronuncia ha promosso ricorso in Cassazione la Società lamentando l'erronea applicazione dell'art. 18, co. 4 e 6, St. Lav., posto che la mancata osservanza del termine per l'irrogazione del recesso (peraltro con uno scarto temporale di 10 giorni rispetto all'iter procedimentale previsto dalle parti collettive) integrava, al più, una mera ipotesi di "violazione procedurale" sanzionata con l'applicazione del rimedio indennitario debole (6-12 mensilità).
Orbene, nell'accogliere il ricorso promosso dalla parte datoriale, la Suprema Corte di Cassazione ha evidenziato come: «in tema di licenziamento disciplinare, ove la legge o le norme di contratto collettivo prevedano dei termini per la contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso – ricadente "ratione temporis" nella disciplina dell'art. 18 St. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012, comma 42 dell'art. 1 –, il mancato rispetto dei detti termini integra violazione di natura procedimentale e comporta l'applicazione della sanzione indennitaria di cui al comma 6 dello stesso art. 18 St. lav., trovando invece applicazione la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, nel caso in cui sia accertato un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso». In altri termini, secondo il percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità, trattandosi di una intempestività esigua e non "notevole", la Corte d'Appello avrebbe dovuto applicare la tutela indennitaria debole di cui all'art. 18, co. 6, in luogo della reintegrazione.

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